Condominio

Muro di confine e danno per violazione delle distanze legali: le precisazioni della Cassazione

Risarcimento non dovuto se l'immobile acquistato dall'originaria attrice è fatiscente, diroccato, e quindi disabitato

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di Ivana Consolo

Talvolta si danno per scontate circostanze e diritti che, a ben guardare, tanto scontati non sono. Se tra due proprietà esiste un muro divisorio, si tende a dare per certo che trattasi di un muro comune posto a servizio di entrambi i condividenti, con tutte le facoltà che il diritto contempla al riguardo. Alla stessa maniera, se un nostro vicino realizza un manufatto senza rispettare le distanze legali, siamo subito pronti ad agire per chiedere un risarcimento, o il ripristino dei luoghi. Ma non sempre le nostre convinzioni trovano un fondamento giuridico; ed a dimostrarcelo, ci ha pensato la Suprema corte, con l’ordinanza civile numero 28850 del 19 ottobre 2021. Andiamo a scoprire quali e quante sfaccettature possono presentare situazioni apparentemente chiare ed assodate.

I fatti
La vicenda che fa da sfondo alla pronunzia in esame, vede contrapposti i proprietari di due immobili limitrofi e disomogenei: un edificio ed un cortile. La proprietaria dell'edificio, lamentava il danneggiamento alla superficie di un muro divisorio di sua proprietà, provocato dai confinanti a seguito dei lavori per la realizzazione di una tettoia ed innesto di una trave. I proprietari del cortile, a loro volta, lamentavano danni da infiltrazione di acqua piovana provenienti dall'edificio della confinante. In primo grado, venivano riconosciute entrambe le pretese azionate; in particolare, il risarcimento danni in favore della proprietaria dell'edificio, veniva disposto qualificando la condotta dei vicini come illegittima per violazione delle distanze tra le costruzioni.

La proprietaria dell’edificio, si determinava ad investire del caso la Corte d’appello di Brescia, che revocava la condanna al risarcimento danni posta a carico dei confinanti, rilevando che l'immobile acquistato dall'originaria attrice, fosse fatiscente, diroccato, e quindi disabitato; per cui nessun apprezzabile danno patrimoniale poteva aver subito dall'ipotetica abusività dei lavori di realizzazione della tettoia. Inoltre, la Corte aveva elaborato una ricostruzione secondo cui il muro divisorio fosse da definire comune, quindi tale da legittimare l'innesto di una trave da parte di ciascuno dei condividenti, senza che tale circostanza comportasse violazione delle distanze.Non accettando come valide le statuizioni della Corte bresciana, la proprietaria dell'edificio ricorre in Cassazione.

Il danno per la violazione delle distanze legali
Da Piazza Cavour, ci giungono spunti molto interessanti sul caso che si sta analizzando. Anzitutto, la Cassazione si sofferma sul danno che i proprietari del cortile avrebbero arrecato all'edificio, non ritenuto sussistente dai giudici d'appello. Ebbene, gli ermellini sostengono che la ricostruzione fatta dalla Corte territoriale appare del tutto corretta. Si tende a dare per assunto che, la violazione delle distanze, darebbe diritto al risarcimento del danno indipendentemente dalla dimostrazione di un effettivo pregiudizio; cioè senza onere per il danneggiato di provare la sussistenza e l'entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito.

Tuttavia, la Cassazione ci tiene a puntualizzare che resta comunque salva la possibilità, per il danneggiante, di dimostrare come, per le peculiarità dei luoghi, per il valore e le condizioni del bene, o per le modalità della lesione, il pregiudizio possa e debba essere totalmente escluso. Nel caso in esame, lo stato dei luoghi (zona sismica), unitamente alla situazione di assoluta fatiscenza della costruzione, che si presentava dirupata e non abitabile, escludevano il danno connaturato all'azione di violazione delle distanze provocato dalla realizzazione della tettoia ritenuta abusiva.

Il muro divisorio comune
Venendo invece alla trave innestata nel muro divisorio, la Corte territoriale ha affermato l'applicabilità alla controversia dell'articolo 884 del Codice civile, che contempla la possibilità del comproprietario di un muro comune di immettervi travi, in forza della presunzione di comunione del muro divisorio di cui all'articolo 880 del Codice civile. Ebbene, occorre subito osservare che, la presunzione di comunione di cui al dettato codicistico, presuppone omogeneità tra le due proprietà divise dal muro (edificio/edificio - terreno/terreno). Nel caso di specie, il muro si trovava collocato tra un edificio ed un cortile parzialmente coperto. Il giudice d'appello ha fatto ricorso ad una presunzione di secondo grado (cioè non fondata su certezza e concretezza) per affermare la natura comune del muro esistente a confine fra le rispettive proprietà delle parti.

Pur riconoscendo di non avere disposto consulenza tecnica sulla natura del muro in parola, la Corte d'appello ha fondato il proprio convincimento sull'assunto, indimostrato, che comunque si trattasse di aree omogenee. Ma tale circostanza ben poteva essere vinta da un accertamento contrario; in particolare, dal fatto che il muro confinante fosse costruito per intero su una sola delle aree confinanti, e che si trattasse di muro che divide un edificio da un cortile; erano elementi che avrebbero dovuto essere riscontrati a mezzo di apposito accertamento tecnico. Alla luce dei ragionamenti sin qui svolti, la sentenza della Corte bresciana viene ritenuta da cassare con rinvio, affinché i giudici possano riesaminare il caso in ossequio ai principi di pragmatico rilievo indicati dalla nostra suprema Corte.Mai dare per scontate situazioni di fatto e/o di diritto: i risvolti della logica e dell'interpretazione giuridica, sono sempre molteplici.

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