Condominio

Utilizzo cortile condominiale: no alla costituzione di una servitù di carico e scarico merci senza consenso

Deve essere l’assemblea ad intervenire se si altera la destinazione d’uso del bene o se ne limita l’uso da parte di altri

di Selene Pascasi

Sono due i limiti all'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino: il divieto di alterarne la destinazione e l'obbligo di consentirne un uso equivalente agli altri. Così, fino a che ciascuno li rispetti non scatterà alcuna imposizione di una servitù sulla cosa rientrando il suo potere tra i diritti di condominio. Se, invece, l'utilizzo da parte del singolo si concreti in un peso sulla cosa comune, che la destinazione non consente, non sarà giustificato. A precisarlo è la Corte di appello di Salerno con sentenza 1068 del 2 ottobre 2020.

I fatti
Con atto di citazione notificato il 5 marzo 2013, una condomina evocava in giudizio davanti al Tribunale di Salerno il condominio onde sentire:
1) accertare il diritto di accedere al locale terraneo di sua proprietà, contraddistinto nel catasto fabbricati di tale Comune al foglio (...), particella (...), subalterno (...), mediante la regolare utilizzazione della porta posta sul retro dell'edificio all'interno di uno spazio condominiale chiuso da un cancello in ferro;
2) per l'effetto, condannare il convenuto a consegnarle le chiavi del predetto cancello di accesso;
3) condannare il convenuto alla refusione delle spese processuali.
Nel costituirsi in giudizio, il condominio eccepiva, in via pregiudiziale, la nullità della domanda per violazione dell'articolo 163, comma 3, numero 4,Codice procedura civile e, in ogni caso, nel merito, la sua infondatezza.

La pronuncia
La causa, istruita mediante escussione testimoniale ed espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio, veniva decisa con la sentenza 5685/2017, con la quale il Tribunale di Salerno:
1) in accoglimento della domanda, accertava e dichiarava il diritto della condomina ad accedere al locale terraneo di sua proprietà anche mediante l'uso della porta posta sul retro dell'edificio condominiale;
2) condannava il condominio a consegnare all'attrice le chiavi del cancello di accesso al cortile comune;
3) poneva definitivamente a carico del convenuto le spese della relazione peritale, con il conseguente obbligo di rimborsare quelle anticipate dall'attrice;
4) condannava il convenuto alla refusione delle spese processuali.

I motivi del ricorso in appello
Avverso tale sentenza proponeva appello il condominio assumendo che:
1) la pronuncia di primo grado era affetta da nullità per carenza o contraddittorietà della motivazione, giacché il Tribunale di Salerno, da un lato, aveva aderito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio secondo cui l'apertura del locale terraneo della condomina collocata sul cortile condominiale non poteva considerarsi né veduta, né porta, avendo la funzione di consentirne l'aereazione e l'illuminazione nonché il carico e lo scarico di merci, e, dall'altro, se ne era discostato nel riconoscere all'attrice il diritto di accedere all'immobile di sua proprietà anche mediante l'uso della «porta posta sul retro del palazzo», senza, peraltro, indicare le ragioni giuridiche poste e base di tale decisione;
2) il giudice di primo grado aveva omesso di valutare le risultanze istruttorie, atteso che l'esistenza di una porta di accesso al locale sul retro dell'edificio era stata esclusa dal consulente tecnico d'ufficio e non aveva trovato conferma nelle deposizioni testimoniali; 3) la sentenza impugnata era nulla per violazione dell'articolo 112 Codice procedura civile e, comunque, dell'articolo 41 sexies legge 1150 del 1942, non avendo il giudice di prime cure statuito sull'eccezione sollevata dal convenuto in ordine al divieto di destinare lo spazio condominiale in oggetto ad un uso diverso da quello di area di parcheggio in favore dei proprietari degli appartamenti del fabbricato;
4) il Tribunale di Salerno era incorso nella violazione dell'articolo 1102 giacché, nel riconoscere all'attrice il diritto di accedere al cortile condominiale per effettuare il carico e lo scarico di merci attraverso l'apertura ivi prospiciente, le aveva consentito di alterare la destinazione di un bene comune e di utilizzarlo in maniera tale da pregiudicarne l'uso da parte degli altri comproprietari;
5) il Tribunale di Salerno aveva costituito un'illegittima servitù a carico del cortile condominiale, imponendo su tale bene comune un peso non consentito dalla sua destinazione d'uso;
6) il giudice di primo grado, nel recepire acriticamente le risultanze delle consulenza tecnica d'ufficio, aveva affermato che l'attrice aveva il diritto di effettuare operazioni di carico e scarico merci attraverso il cortile condominiale, nonostante la natura pubblicistica del suo vincolo di destinazione;
7) le deliberazioni con le quali l'assemblea dei condomini assegnava annualmente i posti macchina disponibili ai proprietari delle unità abitative, in tal modo regolamentando la distribuzione e l'uso turnario dell'area di parcheggio, non erano mai state impugnate dalla condomina ai sensi dell'articolo 1137 Codice civile, sicché, essendo vincolanti nei suoi confronti, le precludevano una diversa utilizzazione del bene comune.

Le ragioni della condomina
Costituitasi nel secondo grado del giudizio, la condomina contestava la fondatezza dei motivi di appello, chiedendone il rigetto con la conseguente conferma dell'impugnata sentenza.La causa, nella quale, con ordinanza del 31 ottobre/7 novembre 2018 venivano disattese le istanze formulate dall'appellante in ordine alla sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado e alla rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio, perveniva, per la precisazione delle conclusioni, all'udienza del 4 giugno 2020.

Indi, previo decorso dei termini di giorni sessanta per il deposito delle comparse conclusionali e di successivi giorni venti per il deposito delle memorie di replica, concessi ex articoli 190, comma 1, e 352, comma 1 Codice procedura civile, la causa veniva trattenuta in decisione.L'appello è meritevole di accoglimento, sebbene debbano essere disattese le censure di natura processuale con le quali il condominio ha eccepito la nullità della sentenza impugnata per carenza o contraddittorietà della motivazione, per omessa valutazione, da parte del giudice di primo grado, delle risultanze istruttorie e per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

La motivazione carente
Ed invero, la motivazione di una sentenza è carente quando riveli, nel suo insieme, un'obiettiva deficienza del percorso argomentativo che ha condotto il giudice di merito alla formazione del proprio convincimento, mentre è contraddittoria quando le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in maniera da elidersi a vicenda e da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico sotteso alla pronuncia adottata (tra le tante Cassazione 2 febbraio 1996, numero 914; Cassazione 4 giugno 2001, numero 7476; Cassazione 6 aprile 2006, numero 8106).

Il Tribunale di Salerno non è incorso nel denunciato vizio di carenza o di contraddittorietà della motivazione, giacché, nell'accertare e dichiarare il diritto della condomina di accedere al locale di sua proprietà anche mediante l'uso della porta posta sul retro del palazzo, ha esplicitato le ragioni poste a base della decisione mediante il condiviso recepimento delle conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio, da cui non si è affatto discostato, pur avendo impropriamente denominato come “porta” l'apertura che l'immobile in oggetto presenta sul cortile condominiale.

Proprio tale inesattezza terminologica esclude che il giudice di primo grado, in violazione degli articoli 115 e 116 Codice procedura civile, abbia omesso di valutare o abbia erroneamente valutato le risultanze istruttorie, emergendo con evidenza dal contesto della decisione il riconoscimento che sulla parete laterale del locale commerciale della condomina sussisteva un'apertura e non un'ulteriore porta di accesso rispetto a quella posta sulla strada.Né il condominio può sostenere che la sentenza sia affetta dal vizio di ultrapetizione, avendo il giudice di prime cure non già autorizzato l'installazione di una seconda porta in assenza di una specifica domanda della parte, ma soltanto accertato, in assoluta conformità alla richiesta dell'atto introduttivo del giudizio, il diritto della condomina di accedere al proprio immobile anche mediante l'utilizzazione della preesistente apertura prospiciente il cortile condominiale.

Nessuna nullità
Non è configurabile, infine, un'ipotesi di nullità della sentenza per non avere il Tribunale di Salerno statuito in ordine al divieto di destinare lo spazio condominiale ad un uso diverso da quello di area di parcheggio, dal momento che il vizio di omessa pronuncia non ricorre quando, come nel caso di specie, la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o dell'eccezione formulata dalla parte, risultando queste ultime incompatibili con l'iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito (Cassazione 5351/2007; Cassazione 29191/2017; Cassazione 20718 /2018).

Ed infatti, il Tribunale di Salerno ha sancito il diritto della condomina di accedere al locale commerciale anche attraverso il vano aperto sul cortile condominiale sul presupposto della ravvisata lesione del suo diritto di proprietà, per come risultante dai titoli di provenienza, in tal modo ritenendo implicitamente inidonea a paralizzare l'accoglimento della domanda l'eccezione sollevata dal condomino con riguardo alla violazione della destinazione d'uso del predetto bene comune.Fondati, di contro, sono i motivi di ricorso con i quali il condominio deduce che il giudice di primo grado, nel riconoscere alla donna il diritto di accedere al cortile condominiale per effettuare le operazioni di carico e scarico merci attraverso l'apertura del suo locale commerciale posta sul retro del fabbricato, le ha consentito di alterare la destinazione di un bene comune e di utilizzarlo in maniera tale da pregiudicarne l'uso da parte degli altri comproprietari, costituendo una servitù prediale a vantaggio del suo immobile.

L’uso del bene comune
Al riguardo, occorre preliminarmente rilevare che, ai sensi dell'articolo 1102, comma 1, Codice civile, applicabile nell'ipotesi di condominio negli edifici in virtù del richiamo operato dall'articolo 1139 Codice civile ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, potendo a tal fine apportare, a proprie spese, le modificazioni necessarie per il miglior godimento del bene.

La coincidenza del diritto di ciascun partecipante con quelli degli altri titolari del godimento sullo stesso oggetto giuridico implica che il singolo condomino non può snaturare quell'intimo rapporto di equilibrio che costituisce il fondamento del condominio, nel senso che non è legittimato ad estendere l'utilizzazione della cosa comune ad altre entità economiche estranee a quella specifica situazione di comproprietà in maniera da modificare la misura ed il limite dei diritti spettanti a ciascun titolare.

Tale limitazione si risolve nell'obbligo del condomino di rispettare l'attuale destinazione della cosa comune sia sul piano materiale che su quello economico, così come risultante dalla legge, dalla natura stessa del bene o dalla volontà collettiva dei comproprietari.Al di fuori della predetta ipotesi, si esorbita dalla sfera di applicazione delle norme sul condominio e l'eventuale diverso godimento della cosa comune può trovare titolo nella costituzione di una vera e propria servitù mediante il consenso di tutti i comproprietari (Cassazione 23 novembre 1962, numero 3174).

Ogni condomino ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità maggiore e più intensa di quella che viene conseguita dagli altri comproprietari, a condizione che non ne sia mutata la destinazione o non ne sia compromesso il diritto all'uso paritetico.In particolare, per stabilire se l'uso più intenso da parte del singolo sia consentito ai sensi dell'articolo 1102, non deve aversi riguardo alla concreta utilizzazione del bene comune che ne fanno gli altri condomini in un determinato momento, ma a quella potenziale configurabile in relazione ai diritti di ciascuno.

Nessuna mutazione di destinazione o costituzione di servitù
L'uso deve ritenersi in ogni caso ammesso in tutte le ipotesi in cui l'utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dal bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla sua destinazione originaria e sempre che non determini l'insorgenza di servitù a carico della stessa cosa (tra le altre Cassazione 10453/2001; Cassazione 22341/2009; Cassazione 9278/2018).L'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino, come innanzi evidenziato, è sottoposto, ai sensi dell'articolo 1102, a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione del bene comune e nell'obbligo di consentirne un uso equivalente agli altri condomini.

Simmetricamente, tale disposizione normativa, diretta, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all'esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, lo legittima, entro i richiamati limiti, a servirsi del bene comune anche per fini esclusivamente propri e a ricavarne ogni possibile utilità, non potendosi la nozione di “uso paritetico” intendersi in termini di assoluta identità di utilizzazione della cosa, giacché una lettura in tal senso del dettato codicistico, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fruirne in funzione di un suo particolare vantaggio (Cassazione 5 dicembre 1997, numero 12344).

In altre parole, la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell'articolo 1102 Codice civile non deve essere interpretata come perfetta equivalenza dell'utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, atteso che l'identità nel tempo e nello spazio di tale fruizione impedirebbe, di fatto, ad ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, anche laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell'oggetto della comunione (Cassaszione 7466/2015; Cassazione 6458/2019).

Conclusioni
In definitiva, l'utilizzazione della cosa comune da parte del condomino può avvenire sia secondo la sua consueta funzione, sia in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri partecipanti alla comunione, purché nell'ambito della destinazione normale del bene e, dunque, senza precludere, comprimendole o vanificandole, le utilizzazioni concorrenti, attuali e anche potenziali di tutti i comproprietari, ma non nei casi in cui quel godimento peculiare e inconsueto del singolo determini pregiudizievoli invadenze nella sfera dei coesistenti diritti degli altri partecipanti (Cassazione 28 novembre 1984, numero 6192; Cassazione 11 gennaio 1993, numero 172).

Alla luce di tali premesse, non può revocarsi in dubbio che, essendo il cortile condominiale adibito ad area di parcheggio del fabbricato, ai sensi dell'articolo 41 sexies, comma 1, legge 1150 del 1942, e non avendo, peraltro, la condomina mai rivendicato un posto macchina e, in particolare, quello antistante all'apertura laterale del proprio locale, non può trovare accoglimento la domanda con la quale ha chiesto di ottenere l'accesso al bene comune mediante il cancello carrabile per effettuare operazioni di carico e scarico merci con un mezzo di trasporto, giacché tale attività non solo ne altererebbe la destinazione, ma ne pregiudicherebbe inevitabilmente anche l'utilizzazione da parte degli altri comproprietari, soprattutto in ragione della ristrettezza degli spazi disponibili, precludendo loro la possibilità di transitarvi, di compiere le necessarie manovre e di posteggiare i propri veicoli.

La ristrettezza dei luoghi e l’impedimento dell’altrui diritto
Ed invero, come emerge dalla planimetria redatta dal consulente tecnico d'ufficio, la larghezza dell'area condominiale antistante al locale commerciale della condomina misura metri setti, da cui vanno sottratti gli spazi per i posti macchina assegnati su entrambi i lati ad altri comproprietari, con la conseguenza che l'eventuale sosta di un mezzo di trasporto dinnanzi all'apertura laterale di tale immobile per compiere le operazioni di carico e scarico merci ostruirebbe completamente la percorribilità dell'area, impedendo, a maggior ragione, il godimento del parcheggio e, con esso, l'esercizio dei diritti dei condomini sulla cosa comune secondo la sua naturale destinazione.

D'altra parte, quand'anche la condomina avesse già avuto a disposizione un posto macchina o, comunque, lo avesse chiesto con la domanda introduttiva del giudizio, non avrebbe, in ogni caso, potuto conseguire il diritto di accedere al cortile condominiale per eseguire le operazioni di carico e scarico merci, trattandosi, nel caso di specie, di un'attività radicalmente incompatibile con la destinazione a parcheggio del bene comune, proprio in ragione della conformazione e della limitata estensione di tale area.

Pertanto, il Tribunale di Salerno, nel riconoscere alla condomina il diritto di accedere al proprio immobile anche mediante l'utilizzazione dell'apertura laterale posta sul retro del fabbricato, è incorso nella violazione del principio stabilito dall'articolo 1102 determinando, di fatto, per effetto dell'alterazione della destinazione d'uso del cortile condominiale e della menomazione del diritto degli altri comproprietari di fruirne in conformità, l'insorgenza di una servitù reale a carico del bene comune ed in favore della proprietà esclusiva dell'appellata.

La costituzione di una servitù necessita del consenso
Ed invero, al singolo condomino non è consentito di costituire sulla cosa comune una servitù a vantaggio del proprio bene, essendo a tal fine richiesto, a norma dell'articolo 1059, comma 1, Codice civile, il consenso di tutti i partecipanti.La costituzione di una servitù non è configurabile soltanto «quando la destinazione della cosa comune è precisamente quella di fornire alle unità immobiliari in proprietà esclusiva, site nell'edificio, quella specifica utilità che formerebbe il contenuto di una servitù prediale» (Cassazione 8591/1999).

Ne deriva che, finché il partecipante, nell'esercitare il suo diritto, rispetta la destinazione del bene comune, fruisce dello stesso diritto di proprietà, non sussistendo l'imposizione di una servitù giacché il potere rientra tra quelli inerenti al diritto di condominio.Qualora, invece, l'utilizzazione da parte del singolo partecipante si concretizza in un peso sulla cosa comune, che la destinazione della cosa in sé non consente, tale forma di godimento non può essere giustificata con il diritto di condominio.

In tale ipotesi, si pone inevitabilmente in essere una servitù e, dunque, ogni atto in cui si estrinseca di fatto l'utilizzazione del bene comune ne comporta l'assoggettamento ad un peso, che le norme sul condominio non permettono.La fondatezza dei motivi di ricorso relativi all'alterazione della destinazione del bene comune e al suo indebito assoggettamento ad una servitù prediale assume rilevanza assorbente ai fini dell'accoglimento dell'appello e, di riflesso, rende del tutto ultronea la delibazione delle ulteriori ragioni di impugnazione articolate dal condominio in ordine alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio e alla mancata impugnazione, da parte della condomina, delle deliberazioni assembleari in tema di regolamentazione dell'uso dell'area di parcheggio.

Le spese processuali
Allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, il giudice d'appello deve provvedere d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad una nuova regolamentazione delle spese processuali, il cui onere deve essere attribuito e ripartito considerando l'esito complessivo della lite, giacché la valutazione della soccombenza si effettua, ai fini della loro liquidazione, in base ad un criterio unitario e globale, sicché viola il principio di cui all'articolo 91, comma 1, Codice procedura civile, il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (tra le tante Casssazione 6259/2014; Cassazione 11423/2016; Cassazione 9064/2018).

In tale prospettiva, le spese del doppio grado del giudizio, in applicazione del principio della soccombenza, derivante dall'infondatezza della domanda proposta dalla condomina, devono gravare sulla stessa e si liquidano, come da dispositivo, sulla base dello scaglione tabellare relativo alle controversie di valore indeterminabile, alle quali è riconducibile la presente, in assenza di parametri di riferimento di carattere patrimoniale, ed in rapporto all'attività difensiva espletata dal condominio, per il primo grado, in euro 4.500,00 per compenso, di cui euro 1.100,00 per la fase di studio, euro 700,00 per la fase introduttiva, euro 1.200,00 per la fase istruttoria ed euro 1.500,00 per la fase decisionale, e, per il secondo grado, in euro 4.804,00, di cui euro 804,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compenso, oltre rimborso forfettario del 15%, Cap ed Iva.


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