Condominio

Oneri condominiali arretrati al momento del rogito. Chi paga?

immagine non disponibile

di Maria Adele Venneri - Il Consulente Immobiliare


Nella fase di compravendita di un appartamento in condominio l'acquirente sollevava il problema di oneri condominiali non pagati. A tal proposito, il notaio che aveva ricevuto l'atto con il quale la venditrice aveva trasferito all'acquirente la proprietà dell'immobile, aveva trattenuto sul prezzo della vendita la somma di lire 4.500.000.
In seguito, la venditrice chiedeva al notaio la restituzione della suddetta somma.
Il notaio, però, al fine di restituire l'importo, richiedeva l'esibizione di una quietanza, rilasciata dall'amministratore del condominio, attestante il pagamento degli oneri condominiali precedenti alla stipula.
La venditrice, dunque, chiamava in giudizio il notaio, dinanzi al Giudice di pace di Roma, lamentando che, erano trascorsi oltre due anni dalla stipula del contratto di compravendita senza che il condominio e l'acquirente avessero avanzato pretese. A parere della venditrice, dunque, il notaio non aveva titolo per continuare a detenere l'importo di cui si richiedeva la restituzione.
Il Tribunale di Roma, dinanzi al quale era proseguita la causa a seguito della dichiarazione di incompetenza per valore da parte del giudice di pace, rigettava la domanda.
Avverso la sentenza, la venditrice proponeva appello principale e il notaio proponeva appello incidentale relativamente alle spese, che non comprendevano quelle di registrazione delle sentenze del giudice di pace e del tribunale.
La Corte d'Appello di Roma rigettava l'appello principale e accoglieva l'appello incidentale proposto dal notaio, integrando la condanna alle spese dell'importo sostenuto per la registrazione delle sentenze.
A parere della corte il contratto posto in essere fra le parti si doveva qualificare quale deposito fiduciario nell'interesse del terzo acquirente ex art. 1773 c.c., precisando, altresì, che l'accordo non richiedeva forma scritta per la validità dell'atto.
L'art. 1773 del codice civile dispone: "se la cosa è stata depositata anche nell'interesse di un terzo e questi ha comunicato al depositante e al depositario la sua adesione, il depositario non può liberarsi restituendo la cosa al depositante senza il consenso del terzo".
Al fine di inquadrare meglio i protagonisti dell'art. 1773 codice civile nella vicenda in esame, occorre evidenziare che il "terzo" è il soggetto acquirente dell'immobile, il "depositante" è la venditrice e il "depositario" è il notaio.
Si configura il contratto di deposito nell'interesse di un terzo "quando il depositante effettua un deposito con l'intento che il depositarlo consegni la cosa ad un terzo, se si verifica un determinato evento futuro e incerto, o che restituisca la cosa a lui medesimo se quell'evento non si verifica. Effetto tipico del deposito effettuato anche nell'interesse di un terzo, una volta che questi abbia manifestato la sua adesione non soltanto al depositario, ma anche al depositante, è che il depositario non può restituire la cosa al depositante senza il consenso del terzo" (Cassazione, sent. n. 25680/2018 in esame).
Per la corte, perciò, il deposito del denaro presso il notaio era stato fatto a garanzia del pagamento di eventuali debiti condominiali, precedenti alla stipula del contratto di compravendita.
Conseguentemente, l'eventuale esistenza dei suddetti debiti doveva considerarsi quale condizione sospensiva del diritto dell'acquirente di pretendere la consegna della somma di denaro lasciata in deposito.
Contrariamente, se l'evento non si fosse verificato la somma doveva essere restituita alla depositante venditrice.
Circa l'ultima ipotesi, per la corte, la venditrice, per ottenere la restituzione della somma costituente il deposito, avrebbe dovuto procurarsi il consenso del terzo (ossia dell'acquirente) e in ogni caso avrebbe dovuto provare di non avere alcuna esposizione nei confronti del condominio, in modo da rendere certo che l'evento non poteva più verificarsi.
Per la Corte d'Appello, dunque, non era sufficiente sostenere che, in considerazione del tempo trascorso, qualsiasi credito del condominio era oramai prescritto così come sosteneva la venditrice, "trattandosi di eccezione (quella di prescrizione) non proponibile nei confronti dei terzi".
La venditrice ricorreva, dunque, in Corte di Cassazione e il notaio a sua volta proponeva controricorso. La Corte di Cassazione, Sez. II, con sentenza n. 25680 del 15 ottobre 2018, accoglieva solo uno dei sette motivi a cui era affidato il ricorso principale, rigettando tutti gli altri.

I principi di diritto posti alla base della decisione
La venditrice, nel ricorrere dinanzi la Suprema Corte, affidava il ricorso a sette motivi.
Con il primo motivo lamentava la violazione degli artt. 345 e 346 codice procedura civile.
In particolare, l'art. 345 del codice procedura civile rubricato "domande ed eccezioni nuove" dispone il divieto assoluto di proporre domande nuove, al fine di garantire la piena attuazione del principio del doppio grado di giurisdizione. Con il successivo art. 346 rubricato "decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte" si stabilisce, invece, una presunzione assoluta di rinuncia alle domande ed eccezioni non espressamente riproposte in appello.
Come sopra rilevato, la sentenza della corte di merito riteneva che il notaio avrebbe potuto restituire la somma solo con il consenso del terzo, ossia l'acquirente, così come stabilito nell'art. 1773 del codice civile .
È da rilevare che la posizione del terzo non era stata considerata nei motivi di impugnazione né aveva costituito argomento difensivo proposto dal notaio. Quest'ultimo, infatti, aveva sostenuto le proprie ragioni sulla base di un motivo diverso ovvero la mancata esibizione della quietanza liberatoria del condominio per gli oneri pregressi. La Corte d'Appello, perciò, ritenendo di poter integrare con l'anzidetto rilievo la motivazione della sentenza del Tribunale, aveva violato i limiti del giudizio d'appello.
La Corte di Cassazione, però, ha dichiarato tale primo motivo inammissibile.
Ritiene il Collegio, infatti, che: "…la corte d'appello, pur introducendo la questione della necessità del consenso del terzo, ha tenuto ferma la ragione di rigetto identificata dal primo giudice. […] anche per la corte d'appello la depositante, al fine di ottenere la restituzione, avrebbe dovuto dimostrare "in ogni caso" «di non avere più alcuna esposizione nei confronti del condominio», mentre ciò non era avvenuto. Consegue da quanto appena detto che il rilievo oggetto di censura (la depositante avrebbe dovuto procurarsi il consenso del terzo) ha affiancato e non sostituito l'argomento, di per sé sufficiente a sorreggere la decisione negativa per la depositante, fondato sulla mancanza di una prova oggettiva della estinzione del credito garantito…".
Poi, i giudici della Cassazione, esaminandoli congiuntamente, hanno ritenuto infondati sia il secondo che il quarto motivo del ricorso proposto dalla venditrice.
Con il secondo motivo, la ricorrente denunciava la violazione dell'art. 1777 del codice civile, il quale dispone che: "il depositario deve restituire la cosa al depositante o alla persona indicata per riceverla, e non può esigere che il depositante provi di esserne proprietario.
Se è convenuto in giudizio da chi rivendica la proprietà della cosa o pretende di avere diritti su di essa, deve, sotto pena del risarcimento del danno, denunziare la controversia al depositante, e può ottenere di essere estromesso dal giudizio indicando la persona del medesimo. In questo caso egli può anche liberarsi dall'obbligo di restituire la cosa, depositandola, nei modi stabiliti dal giudice, a spese del depositante".
Invero, la corte di merito aveva posto l'onere di chiedere il consenso del terzo a carico della venditrice. Tale onere era invece a carico del notaio rogante, che aveva ricevuto la somma in deposito.
Con il quarto motivo, la venditrice lamentava la violazione degli artt. 1454, comma 2, e 2946 codice civile .
Il primo articolo indicato stabilisce, al secondo comma, il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, mentre l'art. 2946 fissa la cosiddetta prescrizione ordinaria decennale, applicabile in tutti i casi in cui la legge non disponga altrimenti.
Come già anticipato in precedenza, i giudici del secondo grado avevano qualificato il rapporto intercorso tra le parti come deposito in garanzia nell'interesse dell'acquirente. Tale deposito era sottoposto alla condizione sospensiva dell'esistenza di debiti condominiali precedenti alla stipula.
Il tempo decorso dalla data della compravendita rappresentava al contempo certa l'inesistenza di tali debiti e certa che la condizione sospensiva non poteva più verificarsi.
Per la Suprema Corte però "effetto tipico del deposito effettuato anche nell'interesse di un terzo […] è che il depositario non può restituire la cosa al depositante senza il consenso del terzo. […] è coerente con la disciplina legislativa del rapporto riconoscere, da un lato, che il consenso del terzo deve essere procurato non dal depositario, ma dal depositante, interessato ad avere la restituzione della cosa una volta che la condizione sia definitivamente mancata; dall'altro, che l'accertamento che la condizione non si è verificata e che non potrà più verificarsi non riguarda il rapporto fra depositante e depositario, ma fra depositante e terzo, al quale il depositarlo è e deve rimanere estraneo".
Per il Collegio, dunque, entrambi i suindicati principi sono stati correttamente applicati dalla Corte d'Appello nella sentenza oggetto di gravame, con la conseguente dichiarazione di infondatezza del secondo e quarto motivo del ricorso principale.
La Suprema Corte osserva, dunque, che:
"a) il consenso del terzo doveva essere procurato dalla depositante, non dal notaio depositario (secondo motivo);
b) non era opponibile nei confronti del notaio depositario la prescrizione del credito garantito, trattandosi di questione riguardante il rapporto fra depositante e terzo, al quale il depositario è estraneo, (quarto motivo)".
Con il terzo motivo, la ricorrente denunciava la violazione dell'art. 112 codice procedura civile nel quale trova collocazione il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Poiché il giudice è istituito per pronunziare sulle controversie che gli vengono sottoposte dalle parti, egli non può farlo sopra una cosa diversa da quella compresa nelle domande.
Il presupposto di tale doglianza è che i giudici del secondo grado ritenendo che la restituzione non poteva avvenire senza il consenso dell'acquirente implicava che quest'ultimo fosse litisconsorte necessario nel giudizio promosso contro il notaio con la conseguenza che la corte di merito avrebbe dovuto disporre l'integrazione del contraddittorio.
Per la Corte di Cassazione però anche questo motivo è infondato poiché "l'ipotesi del litisconsorzio necessario ricorre […] quando si deduca in giudizio un rapporto plurisoggettivo, concettualmente unico, cosicché la sentenza, in tanto potrebbe ritenersi utilmente data, in quanto pronunciata nei confronti di tutti i soggetti, attivi e passivi, del rapporto obbligatorio (Cassazione, sent. n. 4890/2006): a tal fine la sentenza deve considerarsi inutiliter data quando è certo che essa non potrebbe produrre alcun risultato pratico se pronunciata nei confronti di alcuni soltanto dell'unico e inscindibile rapporto controverso (Cassazione, sent. n. 19004/2004)".
Alla luce di ciò, il Collegio ritiene che deve escludersi la configurazione del summenzionato istituto "…nella fattispecie del deposito fatto anche nell'interesse del terzo, con il quale resta solo garantita la realizzazione del diritto di quest'ultimo, mediante l'obbligo che assume il depositario di non restituire la cosa al depositante senza il consenso del terzo, che rimane estraneo al contratto e acquista semplicemente il diritto di essere interpellato prima che la cosa venga restituita al depositante…".
La sentenza della Corte di Cassazione prosegue e dichiara infondato anche il quinto motivo del ricorso principale nel quale si denunciava la violazione degli artt. 1766 e 1782 c.c.
Il primo fornisce la nozione del contratto di deposito, il secondo quella del deposito irregolare.
Con il quinto motivo, quindi, la venditrice rimproverava "alla corte d'appello di avere fatto riferimento, ai fini della qualificazione del contratto, sia al deposito fiduciario, sia al deposito in garanzia, confondendo due figure giuridiche diverse".
Per il Collegio invece: "la corte di merito […] al di là della denominazione usata, ha ricondotto il contratto dedotto in causa alla figura del deposito nell'interesse di un terzo ex art. 1773 c.c., decidendo la causa in applicazione della relativa disciplina".
Anche il sesto motivo del ricorso, con il quale si lamentava la violazione delle norme che disciplinano l'attività notarile in materia di deposito di valori, è dichiarato infondato dalla Corte.
In virtù di tali norme, il notaio in qualità di pubblico ufficiale nel ricevere somme o valori in relazione agli atti da lui ricevuti, è tenuto ad assolvere a precisi obblighi di registrazione e deposito, che nel caso in esame non erano stati rispettati.
A parere della Corte però: "la ricorrente solleva questioni che non si coordinano con alcuna statuizione della sentenza impugnata, né la ricorrente precisa se in che termini esse furono sottoposta all'esame della corte d'appello".
Nel controricorso avanzato dal notaio veniva, altresì, eccepita la novità delle stesse questioni.
La Suprema Corte, quindi, aggiunge che "la inosservanza delle prescrizioni di legge imposte al notaio che riceva valori non hanno alcuna incidenza sulla validità del deposito e sugli obblighi e diritti che ne derivano".
Infine, con il settimo motivo, la ricorrente denunciava la violazione dell'art. 6, legge 64/1934 (norme complementari sull'ordinamento del notariato) e dell'art. 1, comma 63, legge 147/2013 (legge di Stabilità 2014).
Invero, la corte di merito aveva aumentato l'importo delle spese liquidate in primo grado in modo da comprendere le spese di registrazione delle sentenze.
Osserva sul punto il Collegio che: "nella pronuncia di condanna della parte soccombente delle spese di lite devono essere comprese anche quelle relative alla registrazione della sentenza in quanto rientranti tra le spese conseguenti alla sentenza senza che sia necessaria un'espressa statuizione al riguardo (Cassazione, sent. n. 17698/2010)".
Ciò implica che il notaio controricorrente, dichiarato vittorioso in primo grado, "non aveva bisogno di una apposita statuizione di condanna per pretendere il pagamento delle spese di registrazione delle sentenze del giudice di pace e del tribunale. Egli non aveva quindi ragione di impugnare la sentenza su questo punto, per ottenere l'integrazione della condanna. L'appello incidentale doveva quindi essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse.
Pertanto, conclude la Corte che "è inammissibile il primo motivo, sono infondati i motivi dal secondo al sesto, è accolto il settimo".
A tal proposito la sentenza è cassata in relazione all'unico motivo accolto e decidendo nel merito il Collegio dichiara l'inammissibilità dell'appello incidentale avanzato dal notaio.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©