Condominio

Distanze violate, finestre chiuse. Vince il condominio (troppo) vicino

di Luca Bridi


Viola l'art 905 c.c. il proprietario di un'unità immobiliare che apre una veduta sulla facciata confinante con altro condominio.
La vicenda coinvolge un proprietario che aveva aperto due vedute ampliandone altre quattro sulla facciata del proprio condominio ed il condominio prospiciente: essendo, infatti, la facciata modificata dal convenuto esattamente sul confine con la proprietà del condominio che aveva fatto causa, non esisteva la distanza minima di m. 1,50 per poter aprire vedute sul fondo vicino (cortile).
In materia il primo comma dell'art. 905 c.c. così recita: «Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo».
Per vedute si intendono le aperture che non solo permettono il passaggio di luce e aria ma che consentono anche di affacciarsi sul fondo del vicino: una veduta permette, quindi, una visione mobile e globale sul fondo altrui consentendo di guardare frontalmente ma anche obliquamente e lateralmente come ad esempio, una finestra, un balcone, terrazzi o lastrici muniti di parapetti.
Il termine “fondo” da cui osservare la distanza è generico e comprende ogni genere di immobile (edificio, villetta, terreno coperto o scoperto, cortile). Si veda la situazione nell’illustrazione cliccando qui .
Nel caso affrontato dal Tribunale la facciata già esistente si trovava sul confine per cui era evidente la violazione della distanza indicata dall'art. 905 c.c.: l'attore, pertanto, ha chiesto, previo accertamento dell'illegittimità dei lavori eseguiti dal convenuto sulla facciata dell'immobile di sua proprietà, la rimessione in pristino, nonché il risarcimento dei danni.
Il convenuto si è costituito eccependo il difetto di legittimazione processuale dell'amministratore del condominio per mancanza di regolare autorizzazione all'azione da parte dell'assemblea; nel merito, ha osservato che, ai sensi di una convenzione stipulata in passato tra i rispettivi danti causa delle odierne parti, l'apertura delle finestre e l'ampliamento di quelle esistenti doveva ritenersi consentita e/o in subordine, ha chiesto che la propria condanna fosse limitata alla trasformazione delle attuali vedute in luci.
Il Tribunale di Milano, disposta una CTU e non trovando una conciliazione tra le parti, ha provveduto con la decisione Sentenza n. 1283/2018 – Estensore Presidente Dott. Manunta statuendo che le eccezioni di legittimazione processuale dell'attore dovessero essere respinte in primis perché il convenuto, non essendo condomino, non era legittimato a sollevarle, mentre le eccezioni relative alla legittimazione processuale del convenuto sono altresì state disattese perché era risultato evidente, come verificato dalla CTU, che lo stesso aveva provveduto alle modifiche delle vedute e luci sulla facciata.
Il giudice ha dato anche atto che la descrizione contenuta nella relazione della CTU era documentata e non contestata: per queste ragioni era indubbio che le due finestre nuove aperte dal convenuto costituissero in toto violazione della distanza in materia di vedute e dovevano essere chiuse, con ripristino della facciata nello stato anteriore all'intervento; la sentenza ha inoltre sottolineato che la materia era già stata regolata anche dalla Suprema Corte di Cassazione con Sentenza n. 11956/2009 e che la convenzione in atto tra i due condomini riguardava semmai la possibilità di edificare da parte del condominio attore, avvantaggiando di fatto, in assenza di tale facoltà, lo stabile confinante di un maggior afflusso di aria e di luce nulla essendo stato previsto dalla convenzione in ordine a servitù di veduta, in particolare in ordine all'asservimento del cortile a beneficio dell'edificio confinante.
Anche la domanda inerente l'ampliamento delle finestre preesistenti sulla stessa facciata è risultata illegittima perché tale modifica avrebbe necessariamente comportato un aggravamento della servitù di veduta a carico del fondo di proprietà condominiale, in violazione del divieto di cui all'art.1067 c.c. per cui: “Il proprietario del fondo dominante non può fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente”.
Relativamente alla domanda subordinata del convenuto, il Tribunale di Milano ha ricordato che «In tema di luci e vedute, viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice di merito che, adito allo scopo di sentir dichiarare l'illegittimità di alcune vedute aperte in una costruzione eretta in sopraelevazione, ne abbia imposto la regolarizzazione invece come “luci”. Diversi sono infatti, i presupposti per l'una e l'altra disciplina, riguardando l'art. 905 cod. civ. le aperture che consentono di “inspicere” e di “prospicere”, cioè di vedere ed affacciarsi verso il fondo del vicino, ed invece gli artt. 901 e 902 cod. civ. il diritto di praticare aperture in direzione di quello per attingere luce ed aria; così come diversi sono i rimedi, poiché l'inosservanza delle distanze dettate dall'art. 905 cod. civ. può essere eliminata soltanto dall'arretramento o chiusura delle vedute, mentre le prescrizioni sulle luci possono farsi rispettare attraverso la loro semplice regolarizzazione». (Cass. Sent. N.2558/09).
E' stata infine rigettata la domanda da parte del condominio attore di risarcimento dei danni in quanto l'onere probatorio sul punto non poteva ritenersi assolto dallo stesso ed a tale mancato assolvimento non poteva supplirsi con l'utilizzo di criteri equitativi, che sarebbero stati del tutto privi di qualunque base e, pertanto, arbitrari.
Il Tribunale di Milano ha ritenuto, infine, ricorressero i presupposti per l'accoglimento della domanda di condanna del convenuto per responsabilità aggravata: perché il convenuto non aveva alcun diritto di aprire vedute o di ampliare quelle preesistenti, data l'assoluta mancanza della distanza minima prevista per legge; e in seconda motivazione perché il titolo della convenzione richiamata non conteneva assolutamente alcuna previsione che, in qualche modo, potesse supportare le tesi del convenuto; dando atto quindi che il convenuto avesse agito in giudizio con colpa grave per essere consapevole dell'infondatezza delle proprie “ragioni”, il Tribunale di Milano lo ha condannato al risarcimento ex art. 96 c.p.c. in via equitativa ed alle spese del giudizio.

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