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Riflessioni sulle parti comuni dell’edificio individuate nel Codice civile

L’articolo 1117 fa una lista precisa, ma è dall’applicazione della norma che si ricava il senso della condominialità del bene

di Carlo Callin Tambosi

La struttura sintattico- grammaticale dell'articolo 1117 del Codice civile appare assai semplice. Abbiamo un predicato «sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio (...) se non risulta il contrario dal titolo» e, poi, un soggetto articolato in forma di elenco (il suolo, le fondazioni, i muri maestri e altro). Sul piano interpretativo parrebbe che l'unica alternativa che si ponga all'interprete sia quella relativa alla qualificazione di questo elenco. Esemplificativo o tassativo?

I richiami alle pronunce sul tema
L'analisi dei precedenti tuttavia permette di comprendere che tale semplice alternativa non è in grado di esaurire in maniera chiara il significato della norma; dopo ormai quasi ottanta anni di interpretazione, pure rimaneggiato nel 2012, l'articolo 1117 permane strutturalmente identico a quello presente nella versione originale del 1942. Infatti, in giurisprudenza, troviamo, oltre a innumerevoli sentenze che affermano la natura comune di beni compresi nell'elenco, sentenze che affermano la natura comune di beni non compresi nell'elenco, e ciò potrebbe fare deporre per la mera esemplificatività dell'elenco, ma anche sentenze che affermano la proprietà esclusiva di beni che rientrerebbero nell'elenco e ciò anche in assenza di un titolo contrario.

La norma e la sua applicazione
Risulta chiaro sotto questo profilo che interpretazione dell'articolo 1117 in termini letterali non basta quindi a definire il contenuto della norma che da uno dei più importanti autori del diritto condominiale, il giudice della Cassazione Raffaele Corona, è stato definito addirittura come una figura retorica (Proprietà e Maggioranza nel condominio degli edifici, Torino, 2001, pagina 68). La realtà è che, come ha insegnato Ascarelli, il significato delle norme si comprende solo dopo che le stesse siano state interrogate dal giudice per ottenere risposta a casi della vita che gli sono stati proposti: «la norma vive come norma solo nel momento in cui viene applicata» (Giurisprudenza costituzionale e teoria dell'interpretazione, Riv. dir. proc. civ. 1957).

E' evidente, sotto questo profilo che il giudice al quale è stato chiesto se il tetto che copre solo un'unità immobiliare di un corpo fabbrica autonomo all'interno del condominio, debba considerarsi comune o meno ha interrogato la norma e indagato qual è la radice sostanziale del senso dell'articolo 1117 e ne ha dedotto che l'attribuzione di proprietà comune non deriva dalla semplice inclusione nell'elenco del bene di cui stiamo discutendo ma nella funzione comune che lo stesso renda ad almeno due unità immobiliari.

Il bene comune
Del resto questa idea che qualifica la norma come testo da interrogare piuttosto che come oggetto interpretabile in modo oggettivo (come avrebbe detto Dithley) è stata sottolineata da Gadamer il quale ha precisato che «il punto di partenza dell'interpretazione non è il testo bensì un fatto della vita o una situazione problematica sul quale il testo, che ha qualcosa da dire in proposito, viene interrogato» (Wahrheit und Methode Tubingen, 1990, pagine 311 e seguenti). La nozione di bene comune vigente nel nostro ordinamento non corrisponde quindi a una lettura letterale dell'articolo 1117 ma costituisce l'esito dell'interrogazione della norma da parte dei giudici in ottanta anni di interpretazione del Codice civile.La summa di questa idea la possiamo leggere ancora nelle colonne della indimenticabile sentenza della Cassazione a sezioni unite del 31 gennaio 2006, numero 2046.

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