Lavori & Tecnologie

È reato coprire la terrazza con una struttura in ferro

di Valeria Sibilio

In tema di reati edilizi, come la realizzazione di opere abusive che deturpino l'ambiente e aggravino l'offesa per l'assetto urbanistico, alla pena pecuniaria per i responsabili, la Giurisprudenza può affiancare anche quella carceraria. Come ha chiarito la sentenza 47103 del 2018 nella quale la Cassazione ha trattato il ricorso di una coppia contro la decisione della Corte d'Appello che aveva confermato la condanna, loro inflitta in primo grado dal Tribunale, alla pena di mesi due di arresto ed euro 4.000,00 di ammenda oltre al pagamento delle spese processuali, per avere realizzato, in concorso tra loro, in qualità di proprietari dell'unità immobiliare in causa e committenti dei lavori, la costruzione di una struttura di ferro a totale copertura del terrazzo, in assenza di idoneo titolo abilitativo.
I ricorrenti affidavano il ricorso a due motivi, chiedendo l'annullamento della decisione.
Nel primo motivo affermavano che l'immobile in causa, non di loro piena proprietà, era stato concesso in usufrutto ad un altro soggetto con il quale non sussisteva alcun rapporto di parentela, lamentando l'assenza di prove che confermassero la loro responsabilità nella realizzazione dei lavori oggetto di imputazione.
Per i ricorrenti, il giudice di merito avrebbe errato sia nel ritenere che l'usufruttuario, ottantaseienne al momento dei lavori, non potesse essere responsabile degli stessi, sia nel fondare la condanna sulla circostanza della convivenza tra usufruttuario e imputati, che, invece, pur abitando nel medesimo edificio, occupavano diversi appartamenti. Spiegavano, inoltre, che la presenza di uno dei due ricorrenti nel suddetto appartamento, al momento dell'accesso della Polizia Locale, fosse spiegabile in ragione della necessità di chiarire agli operanti che la nuova copertura era stata realizzata per motivi di sicurezza, essendo la precedente danneggiata da un forte evento atmosferico.
Tra gli ulteriori motivi di ricorso, l'affermazione del loro concorso morale senza la prova di alcun interesse al compimento della violazione e senza che gli stessi abbiano avuto alcun ruolo nel commissionare i lavori, oltre che in assenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento, la valutazione come ammissione di colpevolezza, della mancata contestazione, da parte degli imputati, di non essere gli esecutori dell'opera al momento dell'ingiunzione di abbattimento e la circostanza che gli stessi avessero tentato di sondare la possibilità di una sanatoria della tettoia, in quanto tali comportamenti erano riconducibili al fatto che erano divenuti pieni proprietari dell'opera a seguito della morte dell'usufruttuario, erroneamente indicato, nella sentenza impugnata, come deceduto il 16.02.2014 e non il 16.02.2016.
Inoltre, la mancata impugnazione dei provvedimenti amministrativi di abuso davanti al TAR, derivava dal fatto che gli imputati volessero evitare le spese del giudizio, a fronte di una sanzione pecuniaria amministrativa di euro 258,00. Per i ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe, infine, errato nel ritenere che l'ordine di rimozione delle opere provasse la loro responsabilità, in quanto impartito quando l'usufruttuario era già deceduto, per eliminare le conseguenze dell'abuso da loro non perpetrato.
Nel secondo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentavano il fatto che l'affermazione del giudice di Appello non avrebbe tenuto conto delle modalità della condotta, dell'esiguità del danno o del pericolo e della non abitualità del comportamento, avendo, erroneamente, escluso il riconoscimento della tenuità del fatto in ragione della natura stessa del titolo del reato, non compiendo la doverosa analisi di tutte le circostanze del caso concreto del comportamento degli imputati. La circostanza secondo cui l'oggetto dell'abuso fosse di una certa consistenza e di carattere duraturo nel tempo, sarebbe contraddetta da statuizioni della stessa sentenza di primo grado, che avrebbe riconosciuto le dimensioni ridotte dell'opera.
Una motivazione in contrasto con quanto affermato dal Tribunale che, nel riconoscere come l'opera costituisse ampliamento e aggravamento di un abuso preesistente, aveva rilevato che la precedente struttura risaliva agli anni '60 e opere analoghe erano corredo di tutti i terrazzi del condominio dal momento della costruzione dell'edificio. Inoltre, nello stabile erano già stati rilevati più condoni per la formazione veranda, di portata non meno invasive e lesive rispetto all'opera in questione. La sentenza sarebbe, infine, contraddittoria nella parte in cui aveva riconosciuto agli imputati l'occasionalità del fatto posto a fondamento della sospensione condizionale della pena, mentre invece ha negato la non l'abitualità del comportamento, non tenendo conto sia del fatto che essi risultavano incensurati, senza ulteriori carichi pendenti, sia del fatto che l'intervento sulla struttura sarebbe avvenuto per soli motivi di sicurezza, al fine di stabilizzare la precedente in stato precario ed instabile.
Gli ermellini hanno chiarito che, nella Giurisprudenza, la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con le argomentazioni del primo giudice le eventuali carenze della motivazione di appello. Il primo motivo di ricorso è risultato, perciò, inammissibile, in quanto manifestamente infondato. In tema di reati edilizi, la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che ha la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà. L'atto di appello degli imputati verteva esclusivamente sulla riconducibilità dell'abuso in loro capo, non contestando nel merito l'abuso edilizio, così come rilevato nell'unità abitativa del quale i ricorrenti erano prima nudi proprietari e, successivamente, a seguito della morte dell'usufruttario, titolari del diritto pieno e completo. Gli imputati avevano dichiarato, al momento del sopralluogo, che l'opera era stata realizzata in sostituzione di una precedente opera abusiva, che, a seguito degli accertamenti effettuati, risultava di dimensioni maggiori a quella preesistente, senza aver contestato di essere gli esecutori di tale opera. Dal verbale è emerso che la società esecutrice di vari lavori all'interno dell'immobile aveva ricevuto l'incarico di smontaggio della tettoia da parte degli stessi coniugi imputati, non emergendo alcun incarico conferito dall'usufruttuario.
L'amministratrice del condominio rilevava come la copertura del terrazzo fosse stata oggetto di richiesta da parte della ricorrente, inserita nell'ordine del giorno dell'assemblea ordinaria del 07.05.2015, nonostante l‘abuso preesistesse già da parecchi anni.
Alla luce di tali atti, la Suprema Corte ha individuato, a carico di entrambi gli imputati, il requisito della disponibilità dell'immobile, da tenersi distinto dalla convivenza con l'usufruttuario o dalla piena titolarità del bene, in quanto gli stessi erano entrambi presenti al momento del sopralluogo nel corso del quale precisavano fatti e circostanze riguardanti l'istallazione della nuova tettoia, manifestando inequivocabilmente di essere al corrente di tutti i particolari che riguardavano la costruzione della copertura.
In tema di reati edilizi, la responsabilità del committente per l'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, in quanto comporta un giudizio di merito non contrastante né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza. (Cass. Sez. 3, Sent. n. 15926 del 24/02/2009 Ud. (dep. 16/04/2009) Rv. 243467).
Inammissibile anche il secondo motivo di ricorso, avendo la Corte evidenziato come l'opera, nonostante le dimensioni ridotte, fosse realizzata in totale assenza del titolo abilitativo, innestata su opere già abusive, con aggravamento dell'offesa per l'assetto urbanistico, e che la demolizione non sia stata spontanea ma in esecuzione della diffida comunale. Nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo - data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive - costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento. (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19111 del 10/03/2016 Ud. (dep. 09/05/2016) Rv. 266586).
La Cassazione ha, perciò, dichiarato inammissibili i ricorsi, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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