Fisco

La lotta agli odori molesti in condominio

Secondo alcuni studi svolti da associazioni degli amministratori condominiali, tra le immissioni poco o per nulla tollerate vi sono proprio gli odori provenienti dalla preparazione e cottura dei cibi

di Luca Capodiferro (presidente Centro Studi Nazionale Confabitare)

Alzi la mano chi, vivendo in un condominio, non si è mai trovato alle prese con i cattivi odori e le conseguenti dispute che ne derivano. Che si tratti di uno stabile situato in città piuttosto che in una località turistica, sono sempre più i casi nei quali all'interno del condominio arriva, ad un certo punto, il momento in cui viene aperta un'attività legata alla ristorazione o, nei casi peggiori, viene affittato un appartamento ad una famiglia - italiana o straniera che sia - con una spiccata propensione alla cucina «pesante». E se - com'è ben noto ai più - il condominio è già di per sé un luogo dove prolificano le liti ed i contenziosi giudiziari, quando si verificano fenomeni di immissioni intollerabili di fumi ed odori legati alla cucina, ecco che gli animi hanno la tendenza ad accendersi più del normale! Del resto, secondo alcuni studi svolti da associazioni di categoria degli amministratori condominiali, tra le immissioni poco o per nulla tollerate vi sono proprio gli odori provenienti dalla preparazione e cottura dei cibi. Un'intolleranza che, nei numeri, costituisce almeno un terzo dei contenziosi condominiali e, nella maggior parte dei casi dipende dalla mancanza o inadeguatezza dell'impianto di aspirazione ed areazione.
Ma, liti «fantozziane» a parte, cosa comporta dal punto di vista del contenzioso questo tipo di immissioni?
Per quanto il tema possa far sorridere, nella realtà dei fatti da simili episodi possono scaturire, oltre alle proverbiali inimicizie perpetue fra condomini, conseguenze sia sotto il profilo civile che penale. Se poi pensiamo alla stagione estiva o ai mesi di bel tempo, con l'aumento dei tavoli all'aperto, soprattutto nelle località turistiche ed alle norme anti Covid-19, ecco che il tutto ci appare molto più serio ed attuale di quanto si possa pensare.

La responsabilità civile
La casistica, dal punto di vista della tipologia di odori, è ampia ma, va detto, di norma l'immissione che genera contenzioso deriva o dalla quantità di odori prodotti (si pensi a ristoranti e pizzerie ma anche a rosticcerie e attività similari) ovvero dalle normali cucine degli appartamenti dove i fattori che portano alla lite possono essere legati alle condizioni oggettive dello stabile o dell'impianto ma anche al tipo di cibi e spezie che vengono preparati. Ad onor del vero, però, va detto che i fenomeni legati alle attività sono forse meno frequenti, date le norme di igiene e sanità cui sono soggette ed ai conseguenti impianti di aspirazione e ricambio d'aria installati.

Certo, da almeno vent'anni a questa parte, forse anche qualcosa di più, il dilagare del fenomeno delle cucine etniche ha portato in molti casi i condominii ad essere letteralmente «invasi» da ogni sorta di odore in grande quantità ed ai quali non eravamo e non sempre siamo abituati.Che sia nostrana piuttosto che etnica, quando la cucina invade il condominio il problema non è poi così diverso da quando il fenomeno è prodotto da un'attività. Va anche detto che, nella maggior parte dei casi, se l'immissione proviene da un appartamento privato, quasi sempre il problema è legato all'impianto di aspirazione o al mancato ricircolo d'aria (che poi sarebbe a dire: aprite la finestra!).

La prova delle immissioni
Ora, a prescindere da «come e da dove» si generano e si propagano gli odori, il vero problema - dal punto di vista processuale - è dato dalla soglia di tollerabilità (e, quindi, dal suo superamento) e dalla prova che occorre fornire al giudice. Sul primo aspetto la Cassazione ha ormai da anni chiarito che questo tipo di immissioni (ma, ovviamente, non solo loro) diventano intollerabili (cioè insopportabili) quando superano la normale tollerabilità, cioè una soglia che va oltre la sopportazione del c.d. «uomo medio». Ovvio, poi, che il dato da accertare dovrà essere il più possibile oggettivo e dovrà prescindere da situazioni o condizioni personali soggettive.

In genere, a questo punto, sorge quasi sempre la stessa domanda: ma è per forza necessario dover fare una CTU (consulenza tecnica d'ufficio disposta dal giudice) per accertare se le immissioni sono o meno intollerabili? Anche in questo caso è intervenuta la Cassazione a chiarire se e quando sia necessaria la CTU ovvero se e quando bastano, invece, le sole prove testimoniali.

La Corte ha ritenuto, infatti, che la capacità delle immissioni odorose di essere moleste non deve per forza di cose essere accertata con una perizia (la CTU appunto), potendo il giudice interessato - seguendo le regole generali - fondare il proprio convincimento su elementi di prova di varia natura e, quindi, anche sulla prova per testimoni, a patto, però, che queste persone siano in grado di riferire con precisione lo stato dei fatti oggettivo, cioè come da loro stessi effettivamente percepito e non si limitino, invece, a riferire proprie valutazioni soggettive.

Il danno e la sua liquidazione
Il Codice civile stabilisce (si veda l'articolo 844) che se le immissioni o esalazioni sono intollerabili per i vicini, il responsabile delle stesse dovrà risarcire il danno qualora sia stata superata la soglia di normale tollerabilità, tenendo conto fra le altre cose, anche dello stato dei luoghi. Il giudice, in pratica, dovrà sempre bilanciare le esigenze dell'attività o di chi abita l'immobile da cui le immissioni provengano con le ragioni dei soggetti danneggiati. Ciò dovrà fare sia per stabilire se danno vi è stato sia per prescrivere l'adozione di misure idonee ad eliminare e prevenire i fenomeni.

Il danno da risarcire potrà essere sia quello patrimoniale che non patrimoniale. Nel primo caso si pensi, ad esempio, alla possibile perdita di valore di tutto lo stabile e, quindi, di ogni singolo appartamento da vendere o locare. Nel caso di danno non patrimoniale, i patemi o menomazioni all'integrità psicofisica, se accertato e/o ammesso, verrà di norma liquidato secondo criteri equitativi e seguendo appositi parametri tabellari.

La responsabilità penale
Problematiche risarcitorie a parte, le immissioni moleste di odori possono costituire anche ipotesi di reato (di tipo contravvenzionale) e, nella specie, di violazione dell'articolo 674 del Codice penale, che prevede che sia punito con l'arresto fino ad un mese o con l'ammenda fino a 206 Euro chiunque - con un comportamento colposo - provoca emissioni di gas, vapori o fumi che molestano le persone. E come fa il giudice penale a stabilire se c'è o meno «colpa»?

La giurisprudenza ritiene che tale responsabilità si configura - nel caso di molestie olfattive - a prescindere dalla qualifica soggettiva del soggetto emittente (e, quindi, che si tratti di attività o persona fisica) e, nel decidere, laddove non vi sia alcuna predeterminazione di legge, dovendo il giudice avere riguardo al criterio della normale tollerabilità previsto prorpio dall'articolo 844 del Codice civile.

Se è relativamente facile comprendere la responsabilità civile, meno semplice è capire quando l'ipotesi sfoci nella contravvenzione penale. Per questo qualche caso potrà essere d'aiuto.

Gli odori della torrefazione
Tranne pochi casi, l'aroma di un buon caffé piace a tutti. Ma quando si abita nei pressi di una torrefazione, non è detto che quanto proviene dalla stessa sia alla fine qualcosa di piacevole (ma lo stesso potrebbe dirsi, ad esempio, per una pasticceria). Lo ha stabilito la Cassazione che ha condannato l'amministratore di una torrefazione che aveva diffuso odori nauseabondi tali da molestare gravemente i residenti della zona in cui era stata aperta.

A prescindere dai provvedimenti (amministrativi e sanitari) che ne hanno consentito l'apertura, il criterio cui riferirsi - per la Cassazione - è quello della normale tollerabilità. La prova è stata quella del «naso delle vittime», cioè la testimonianza di chi abitava in zona e che ha riferito che la puzza di caffé bruciato era divenuta a tal punto nauseabonda da provocare, a volte, un vero e proprio rigetto.

La pizzeria e la cucina domestica
Per quanto l'una sia un'attività e l'altra una semplice «casa privata», entrambe le situazioni possono degenerare fino al punto di costituire reato. Lo ha stabilito sempre la Cassazione che, nel primo caso, ha condannato il proprietario di una pizzeria per aver generato - mediante la cottura dei piatti - odori insopportabili che potevano essere percepiti dai vicini anche con le finestre chiuse. Come se ciò non bastasse, in corso di causa si è accertato anche che gli odori si infiltravano negli appartamenti del condominio dove era posta la pizzeria, nel vano scala e nelle altre parti comuni, come rilevato dall'ASL.Ma anche la «cucina di casa nostra» potrebbe non essere immune da questi rischi.Come detto, che sia nostrana piuttosto che etnica, occorre fare attenzione agli odori di sughi, fritture e cibi speziati o pesanti.

E se a volte basta una cappa d'aspirazione più potente (ma, laddove vi sia, anche solo aprire la finestra), l'eccessiva cottura di cibi, soprattutto laddove prevedano l'uso abbondante di spezie ed aromi, può passare da normale attività quotidiana della vita di tutti noi a reato. In questi ultimi anni, poi, con l'aumentare del fenomeno immigratorio, sono sempre più le famiglie non italiane che reiterano la tradizione della cucina del proprio Paese, spesso a danno dei vicini e del loro naso.

Siamo diventati tutti più intolleranti? Forse, ma di sicuro occorre fare molta attenzione ai limiti di tolleranza nella, diffusione di questi odori. Come evitare spiacevoli conseguenze senza rinunciare alla buona cucina? Di sicuro avendo cura di installare una buona cappa d'aspirazione.

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