Fisco

Dalle pertinenze all’Iva i conti giusti della Tassa rifiuti

di Gianni Trovati

Pertinenze, Iva, livelli di servizio, tempi delle delibere. Tra le eterne incompiute locali che producono in modo instancabile caos per i contribuenti, la tassa sui rifiuti ha un posto da protagonista assoluta.

Cinque cambi di regole (e di acronimi) nel giro di pochi anni non sono stati sufficienti a dare pace a una forma di prelievo che dovrebbe essere tra le più ordinarie. L’Europa, da più di vent’anni, chiede di applicare il principio banale del «chi inquina paga», che misura la tariffa in base alla quantità di rifiuti prodotti. Ma finora i continui tentativi italiani hanno creato più problemi che soluzioni. E nella Tari, più che in altre tasse e tariffe, i problemi cadono dritti sulle tasche dei contribuenti.

Le richieste “gonfiate”

Negli ultimi mesi la cronaca Tari è stata dominata dalla questione dei calcoli “gonfiati” sulle pertinenze. In tanti Comuni, fra i quali Milano, la “quota variabile” della tariffa è stata per anni moltiplicata per le pertinenze: ma questa quota serve a parametrare il conto in base al numero di persone che occupano la casa, e quindi va applicata una volta sola. Alla base del problema, come sempre, c’è una regola nazionale mal scritta e un’interpretazione locale scivolosa: ma alla fine, dopo parecchie esitazioni, il ministero delle Finanze ha fissato la linea. La quota variabile è unica, e le sue moltiplicazioni sono illegittime e vanno restituite. Come?

Sul punto si è tornati ad agire in ordine sparso. Milano, il più grande fra le centinaia di Comuni interessati, ha definito le procedure (le informazioni si possono trovare sul sito internet), altri hanno tentato la via dell’autotutela, la maggioranza attende le richieste dei contribuenti. Ma il calo di gettito si spalma su tutti sotto forma di richieste aggiuntive, perché il totale delle entrate non può ridursi senza violare il principio che impone alla Tari la copertura integrale del costo del servizio.

Il (vecchio) nodo dell’Iva

Meno fortunata sul piano mediatico, ma altrettanto decisiva per i contribuenti, è l’eterna questione dell’Iva sulla tariffa rifiuti. L’Iva è stata infatti applicata per anni in modo illegittimo sulla prima tariffa d’igiene ambientale (Tia1), come ha stabilito la Corte costituzionale nel 2009 aprendo a un diritto al rimborso che ancora non ha trovato applicazione sistematica, perché servirebbe una legge nazionale. E la questione si è riproposta sulla nuova tariffa (Tia2), di cui è figlia la Tari «puntuale» (Tarip) che nei prossimi anni dovrebbe sostituire la Tari “normale” in tutti i Comuni.

La prima Tia, ha detto la Consulta, era una tariffa di nome ma un tributo di fatto, perché misurata su parametri fissi che non cambiavano il conto in base alla quantità reale di rifiuti prodotti dal contribuente. Come tale, quindi, non poteva sostenere anche l’Iva, perché non si applica un’imposta su una tassa.

La Tia2, e quindi la Tarip, sarebbero invece davvero «corrispettive», e quindi accompagnabili dall’Iva, almeno secondo la Cassazione (sentenza 16332 del 22 giugno 2018). Ma fino a un certo punto.

La misurazione «puntuale» che dà il nome alla tariffa riguarda solo i rifiuti indifferenziati, cioè una parte ormai spesso minoritaria e che tende a ridursi nel tempo (almeno così prevede la legge). Probabile, allora, che la questione torni dai giudici delle leggi. Con esiti incerti.

Nelle pagine che seguono gli esperti del Sole 24 Ore danno le risposte che servono su molti dei quesiti che agitano la tassa sui rifiuti. Non su tutti, perché in un caos del genere la sfida è per ora tecnicamente impossibile.

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