Fisco

Chi fa rumore deve accertarsi dei limiti ammessi in quella zona

di Enrico Morello

La Cassazione sul rumore non ammette ignoranza: chi emette rumore in una zona marina, apparentemente poco abitata, avrebbe dovuto sapere se quella era una zona residenziale o meno. Altrimenti rischia di essere condannato per il reato di schiamazzi e rumori che disturbano le occupazioni o il riposo delle persone (articolo 659, primo comma, del Codice penale). La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione in data 11 marzo 2015 ha depositato la sentenza numero 38523 con la quale vengono esaminate delle importanti questioni in materia di immissioni sonore.
Il caso in questione principia parte da una sentenza del Tribunale di Cagliari con il quale viene condannato il gestore di un locale per avere superato i limiti sonori previsti nella zona per il periodo notturno.
In conseguenza della violazione dei divieti, quindi, il proprietario veniva dichiarato colpevole del reato di cui agli articoli 81 e 659 del Codice Penale e condannato al pagamento di una pena pecuniaria.
Avverso tale sentenza l'imputato proponeva Appello presso la Corte Cagliaritana, domandando la riforma della sentenza resa in primo grado per l'intervenuta prescrizione del reato.
La Corte d'Appello di Cagliari accoglieva la predetta istanza e dichiarava estinto il reato, confermando però le statuizioni civilistiche consistenti nel pagamento di somme.
Avverso tale sentenza proponeva impugnazione il gestore del locale, che depositava ricorso presso la Corte di Cassazione. In prima battuta contestava l'erronea applicazione della legge in merito alla misurazione delle emissioni: secondo il ricorrente, infatti, i Giudici non avrebbero tenuto in considerazione che i limiti sonori massimi non avrebbero dovuto essere parametrati sulla base dei criteri stabiliti dalla delibera del commissario straordinario della Regione Sardegna, bensì desunti dalle norme di cui al Decreto del Presidente del Consigli dei Ministri del 14 novembre 1991. In particolare sosteneva di avere rispettato i limiti sonori previsti per la zona ove si trovava il proprio locale, che da considerarsi commerciale e non residenziale come stabilito dai giudici di prime cure.
In secondo luogo contestava come i giudici non avessero tenuto conto della intervenuta depenalizzazione dell'articolo 659 comma II del Codice Penale; aggiungeva il condannato che nel caso in questione l'assoluzione avrebbe dovuto quindi prevalere sulla estinzione conseguente alla prescrizione del reato.
Il terzo motivo del ricorso si concentrava sulla statuizione della erronea classificazione territoriale della zona ove sorgeva il locale oggetto del reato.
Con il quarto motivo di censura, poi, il ricorrente contestava la sussistenza dell'elemento soggettivo, necessario per la consumazione del reato, affermando – in sostanza – la carenza di un intento esplicito di violare la norma di legge.
Secondo la sentenza di primo grado, infatti, «era onere dell'agente che esercita l'attività accertarsi dei limiti imposti da leggi e regolamenti», mentre il sovrapporsi di norme e regolamenti avrebbe di fatto reso estremamente difficile per i commercianti comprendere gli effettivi limiti dell'emissione sonora.
Da ultimo, con il quinto motivo, il condannato lamentava un'omessa valutazione in ordine ai profili civilistici del reato e quindi in punto sussistenza e quantificazione del danno causato dalle emissioni sonore eccedenti i limiti di legge.
La Corte di Cassazione, nella propria sentenza, rigettava tutti i motivi sopra riportati e dichiarava inammissibile il ricorso promosso dall'imprenditore.
Secondo i Giudici, infatti, «l ricorso è inammissibile nella misura in cui ripropone pedissequamente censure già avanzate nell'atto di appello ed adeguatamente esaminate e confutate dalla corte territoriale». Poi però procedeva all'analisi di tutti i motivi di ricorso proposti.
In sostanza la Suprema Corte affermava come la zona ove si trovava fosse zona prevalentemente residenziale – così come specificato nel Decreto del Presidente del Consigli dei Ministri del 14 novembre 1991 – e che quindi il limite di emissioni sonore fosse indiscutibilmente al massimo di 45 decibel, quindi superato dal locale al momento della rilevazione.
Inoltre, in merito alla qualificazione del reato, la Corte specificava come l'imputato non fosse stato condannato ai sensi del secondo comma dell'articolo 659 del Codice Penale, che punisce “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità”, ma ai sensi del più grave primo comma che prevede che “chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a 309 euro”.
Da ultimo, in materia di elemento soggettivo del reato, la Cassazione confermava l'interpretazione della Corte d'Appello che affermava “è onere di colui che esercita l'attività accertarsi del rispetto dei limiti imposti dalla legge e dai regolamenti con la conseguenza che non è possibile riconoscere alcuna efficacia scusante alla mancata conoscenza della normativa in materia nonché all'assenza di qualsivoglia volontà di creare disturbo”.
Si può affermare in conclusione che la sentenza della Cassazione abbia ribadito il principio in ragione del quale è onere e responsabilità del gestore di un locale pubblico informarsi dei limiti di emissione sonora e conformarsi agli stessi ed è impossibile per lo stesso addurre la complessità della normativa come scusante per la violazione dei parametri stabiliti.

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