Condominio

Bonus edilizi sul mercato secondario, con lo stop alle vendite rischio paralisi

di Laura Serafini

Il governo cerca la strada per migliorare la norma che limita le cessioni multiple dei bonus edilizi. La norma inserita nell’ultimo decreto sostegni ha l’obiettivo di colmare un “varco” scoperto nelle recenti misure antifrode. Queste prevedono che coloro che acquistano crediti di imposta non devono accettare la cessione nel caso in cui ricorrano i presupposti di un’operazione sospetta ai fini antiriciclaggio. Questa norma è però depotenziata dal fatto che sul mercato secondario di questi crediti operano molti soggetti non bancari non obbligati a fare segnalazioni e quindi il divieto di acquisto per loro non vale.

Questa lacuna può aprire al coinvolgimento di un maggiore numero di soggetti in caso di frode e dunque alle operazioni di riciclaggio. Di qui la proposta, tagliata un po’ con l’accetta, di vietare la cessione multipla a tutti. La soluzione più immediata tra le opzioni al vaglio, vista di buon occhio dalle banche, sarebbe quella di consentire solo agli intermediari bancari (ai quali fa capo l’obbligo delle segnalazioni sospette) di poter fare le cessioni multiple. La verità è che una simile ipotesi rischia di rendere il mercato dei bonus zoppo e, alla fine, di bloccarlo.

Una circolare della Banca d’Italia a fine 2020 aveva previsto parecchi paletti a carico degli istituti di credito che avessero voluto intervenire nell’acquisto diretto dalle imprese dei crediti di imposta. Per questo motivo in questo mercato all’inizio si sono fatte spazio non soltanto le imprese edili, ma soprattutto le grandi aziende a partecipazione pubblica, tra cui Poste, Eni, Enel, Cdp e la gran parte delle utility locali. In qualche modo sono state sollecitate dal governo giallorosso ad organizzarsi – perché la loro capienza fiscale ai fini della compensazione dei crediti è molto elevata - per entrare nel business ai fini di contribuire a rimettere in moto l’economia.

I modelli di business sono diversi: Poste, ad esempio, si limita a finanziare famiglie e Pmi (anche se prima lo faceva usando le autocertificazioni e adesso ha dovuto stringere molte le maglie dei controlli). Le altre aziende hanno modelli di business diversi, ma quasi tutte sono operative anche nell’acquisto e vendita di crediti di imposta. La loro controparte finale sono le maggiori banche. Il meccanismo che è stato messo in piedi oggi per strumenti come il Superbonus 110% per certi versi ricorda la cartolarizzazione dei mutui subprime americani, dai quali partì la crisi globale del 2008. Il 10% rappresenta il rendimento che rende negoziabile il credito di imposta; renderlo negoziabile contribuisce a renderlo liquido e a sostenere un mercato secondario, nel quale oggi sono maggiormente operative le banche, ma non sono le uniche. È questa la spinta che ha fatto decollare il superbonus. Perché, senza la prospettiva della cessione, le imprese non si sarebbero indebitate per rilevare questi crediti fiscali.

Dopo l’arrivo delle norme antifrode a dicembre tutti gli operatori hanno rallentato l’acquisto dei crediti di imposta dalle imprese. Con norma varata venerdì scorsi si è fermato tutto. Oggi ci sono imprese con un fatturato da 3 milioni che si sono esposte finanziariamente per 30 milioni: fermare la vendita multipla dei crediti di imposta a questo stadio significa fermare il mercato e lasciare alle imprese sommerse dai debiti asset che nessuno può comprare. Le piccole e medie imprese non li possono compensare, perché la loro capienza fiscale non è sufficiente. Se si decidesse per l’opzione di lasciare che siano solo le banche e gli intermediari finanziari a poter operare in questo campo, considerato come si è organizzato il mercato ci sarebbero molte imprese che hanno lavorato con le utility che resterebbero tagliate fuori.

La soluzione di compromesso per scongiurare il rischio di default di un intero settore, ora, potrebbe essere quella di mettere in carico ai maggiori operatori non bancari – che a seguito del decreto antifrode si sono già organizzati per fare parecchi controlli sulle controparti prima di acquistare un credito di imposta – l’obbligo di fare anche le segnalazioni sospette ai fini dell’antiriciclaggio. Secondo alcuni di loro non sarebbe poi così complicato.

Ci sono, poi, i paradossi nei quali si trovano gruppi bancari come quelli di credito cooperativo: le Bcc sul territorio finanziano le piccole imprese clienti e rilevano i crediti di imposta, ma essendo piccole banche hanno una capienza fiscale limitata. Quindi vendono ad altre Bcc o alla capogruppo, la quale a sua volta impacchetta i crediti fiscali e li vende ad altre banche grandi. Tutto questo con il divieto di cessione multipla non sarebbe più possibile.

Resta aperta un’altra questione connessa, al momento non contemplata dalla nuova norma: quella della responsabilità in caso di frode. La denuncia dei 4 miliardi di truffe sui bonus fatta dal governo prima di Natale ha scatenato il panico tra gli operatori. Oggi ancora non è chiaro di chi debba essere la responsabilità e chi debba pagare. In alcuni contratti bancari è previsto che, nel caso di truffa, il contratto sia considerato nullo e il rischio ricade su chi l’ha venduto. Forse la questione dovrebbe uscire dagli accordi privatistici trovando anche una disciplina di legge, lasciando doveri e responsabilità soprattutto a carico di chi fa il lavoro iniziale ma distribuendo responsabilità dei controlli anche tra gli operatori che compravendono i crediti.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©