Condominio

Lecito aprire le porte di accesso al garage privato nel muro perimetrale

L’articolo 1102 del Codice civile presuppone che l’uso più intenso del bene comune, pur consentito al singolo, non ne alteri l’integrità originaria e non limiti l’eguale diritto degli altri condòmini

di Roberto Rizzo

La Corte d'appello di Roma, con la sentenza n. 6500/2015 , in accoglimento del gravame proposto da un Condominio avverso la sentenza resa dal Tribunale di Roma in data 1 giugno 2010, ordinava all'appellata condòmina, di rimuovere le due porte carrabili aperte nel muro perimetrale del fabbricato, al fine di realizzare un accesso diretto dal garage di sua proprietà esclusiva al cortile comune ed alla pubblica via.
Per la Corte territoriale, si era verificato un illecito utilizzo delle parti comuni, ex art. 1102 c.c., in quanto le porte in questione, per dimensioni e caratteristiche strutturali, costituivano alterazione della destinazione del muro perimetrale, privandolo, altresì, della sua funzione di contenimento, come accertato dalla CTU svolta in corso di giudizio.
Inoltre, per effetto delle illecite aperture, veniva ridotta la possibilità d'uso del cortile condominiale a scopo di parcheggio comune, con effettivo asservimento del bene in oggetto alla proprietà individuale.
Contro tale decisione, proponeva Ricorso per cassazione la condòmina soccombente, sostenendo che le due aperture carrabili fossero lecite in quanto manifestazione di un uso consentito del bene comune.
Resisteva con controricorso il Condominio, insistendo per il rigetto integrale delle avverse istanze.

La decisione
La Corte di Cassazione, Sez. II Civ., con l'Ordinanza n. 26073 del 24.11.2020, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso in quanto i motivi formulati dalla ricorrente presupponevano una rivalutazione di elementi fattuali ed istruttori, riservata al giudice del merito e funzionalmente preclusa in sede di legittimità, in quanto non rientrante nelle previsioni di cui all'art. 360 c. p. c., comma 1, n. 5.

Le motivazioni
Nonostante l'intervenuta declaratoria d'inammissibilità del ricorso per i motivi predetti, la Suprema Corte, evidenzia che il singolo che voglia lecitamente trarre dalla cosa comune una maggiore utilità, deve rispettare il limite rappresentato dalla necessità di non alterare il pari diritto degli altri condòmini, di sfruttare, anch'essi, la medesima cosa, non certamente nello stesso momento, ma sicuramente –almeno potenzialmente- in modo analogo.Ciò in quanto i rapporti condominiali sono improntati al principio di solidarietà, il quale richiede che venga sempre garantito l'equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.

Il principio di diritto
Da quanto premesso, consegue che l'accertamento dell'eventuale superamento dei limiti imposti dall'art. 1102 c.c., da parte del condomino che abbia alterato, nell'uso della cosa comune, la destinazione della stessa, come accaduto nel caso di specie, è comunque riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità.Il non corretto esercizio del potere di valutazione delle prove non legali da parte del giudice di merito, che è quello che lamenta la ricorrente, non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo neppure astrattamente riconducibile alle previsioni dell'art. 360 c. p. c., comma 1, n. 5.

Tanto basta, alla suprema Corte, per concludere nel senso dell'inammissibilità del ricorso in oggetto.

Le conclusioni
Nel caso di specie, la Suprema Corte non ha ravvisato i requisiti necessari per considerare la delibera adottata come legittima, posto che, nel corpo della stessa, si fa genericamente riferimento ad un “non meglio specificato conguaglio, di cui non vengono esplicitati né i termini né i tempi di riscossione.”Allo stesso modo, non vengono analiticamente indicati i debiti ai quali fare fronte né i fornitori insoddisfatti. Tale insanabile lacuna –impedendo di individuare la destinazione funzionale del fondo - determina l'assoluta genericità della delibera, cui consegue la violazione dell'art. 1223 c.c., e l'inevitabile declaratoria di nullità della stessa.

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