Condominio

Se il vicino costruisce in violazione delle distanze si può chiedere risarcimento e riduzione in pristino

Il danno patito non deve essere provato poichè scaturisce dal compimento dell’illecito

di Edoardo Valentino

In tema di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, di cui al Codice civile e norme integrative, spetta al proprietario che lamenti la violazione da parte del vicino sia la tutela in forma specifica – ossia la riduzione in pristino delle nuove opere e il ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito – sia la tutela risarcitoria relativa al danno subito a causa del limitato godimento della proprietà del danneggiato. Questo, in sintesi, il principio giuridico sottolineato dalla sentenza Cassazione sezione II, 2 settembre 2020, numero 18220.

La vicenda e le pronunce di merito
La questione giuridica riguardava una controversia tra vicini di casa nel corso della quale un vicino citava in giudizio il proprietario dell'abitazione adiacente lamentando come questi avesse realizzato un terrazzo in violazione delle norme codicistiche e comunali sulle distanze tra edifici.

L'attore, in particolare, assumeva la violazione degli articoli 873 e 905 comma II del codice Civile, che rispettivamente affermano che «le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore» e «non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere».

Le ragioni del ricorso in appello
All'esito del processo il Tribunale accoglieva le ragioni dell'attore e condannava il convenuto sia alla riduzione in pristino della nuova costruzione, che al risarcimento del danno cagionato all'altro proprietario. La parte soccombente, quindi, agiva in appello, lamentando l'illegittimità della sentenza nella parte in cui l'aveva condannato a risarcire un danno al vicino senza che questo avesse dimostrato l'effettivo pregiudizio patito, ma solo in via presuntiva.

La Corte d'Appello accoglieva le rimostranze della parte e riformava parzialmente la sentenza di primo grado, confermando la condanna alla demolizione del manufatto, ma annullando la condanna al risarcimento del danno.

Il ricorso alla Suprema corte e il danno in sè
La vicenda, quindi approdava in sede di Cassazione, a seguito del ricorso del proprietario danneggiato.La parte, sostanzialmente, contestava la decisione d'appello nella parte in cui aveva riformato la condanna al risarcimento del danno da parte della controparte. A detta della ricorrente, difatti, la Corte d'appello avrebbe errato nel negare il risarcimento del danno derivante dalla costruzione in violazione delle distanze legali, escludendo che nella fattispecie in questione potesse determinarsi una condanna “in re ipsa”.Con questa espressione si intende una condanna al risarcimento per un danno che non deve essere puntualmente provato, ma che esiste “in sé” e scaturisce dalla commissione dell'illecito.

A detta della parte ricorrente, tuttavia, secondo un orientamento consolidato della Cassazione, nel caso di condanna alla riduzione in pristino per opera realizzata in violazione delle norme sulle distanze legali il danno subito dalla proprietà del vicino deve essere sempre risarcito in quanto fondato sull'illegittima imposizione di un peso avente le caratteristiche di una servitù.

La decisione
Con la sentenza in commento la Cassazione accoglieva il ricorso sopra sintetizzato. Sottolineavano, infatti, gli ermellini, che in caso di costruzione realizzata ad una distanza inferiore a quelle previste dalla legge, la parte danneggiata può giovarsi di una duplice tutela: reale e risarcitoria (così Cassazione numero 25475 del 2010).Quanto alla tutela reale, essa consiste nella possibilità per il danneggiato di domandare la riduzione in pristino della costruzione fino alla distanza legale, ovvero allo stato precedente alla realizzazione dell'abuso.

Con riguardo alla tutela risarcitoria, invece, la Cassazione specificava come il danno subito dal danneggiato sia un danno conseguenza, e non danno evento, «essendo l'effetto certo e indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria» ( Cassazione Sezioni unite 26972 del 2008, Cassazione 19132 del 2013 e Cassazione 17635 del 2013).

In considerazione di quanto sopra affermato, pareva indiscutibile l'errore del giudice d'appello, che aveva riformato la sentenza e negato il risarcimento del proprietario sulla base della mancata prova del diritto. Affermando che il diritto al risarcimento è “in re ipsa”, invece, qualifica la situazione giuridica e comporta che – per ottenere la condanna della controparte – sia necessario e sufficiente per il danneggiato fornire la prova del fatto storico (esistenza della costruzione) e della violazione delle norme sulle distanze. Avendo il reclamante fornito le prove di cui sopra, al giudice di merito non resterà che condannare il convenuto a risarcire il danno cagionato al vicino, oltre che – come già evidenziato – a demolire la costruzione illecita.

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