Condominio

I MERCOLEDÌ DELLA PRIVACY: “Spiare” con riprese nel domicilio altrui non è sempre perseguibile

Le immagini girate dagli investigatori ingaggiati da un condòmino, sono andate a documentare le intimidazioni e i ripetuti insulti da questo subiti a opera dei vicini

di Carlo Pikler (Responsabile Centro Studi Privacy and Legal Advice)

“Spiare” riprendendo nel domicilio altrui può non essere né penalmente né civilmente perseguibile. L'8 giugno 2020 la V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha pubblicato una interessantissima sentenza, la n. 17346/2020, che merita uno spunto di riflessione.
Nel caso in specie, infatti, si evidenzia come le immagini girate dagli investigatori ingaggiati da un condòmino, sono andate a documentare le intimidazioni e i ripetuti insulti da questo subiti ad opera dei vicini. La Suprema Corte, seguendo un ragionamento che merita approfondimento, concludeva che le riprese devono considerarsi come legittimamente acquisite agli atti come documenti in base all’articolo 234 c.p.p.

Nel caso prospettato vi era un rapporto di vicinato estremamente travagliato che aveva visto le parti scambiarsi continue e reciproche denunce, alcune delle quali anche per minaccia di morte. In questo quadro, la parte offesa aveva incaricato un investigatore per acquisire prove dell'altrui comportamento persecutorio.

Alcune di queste riprese, però, riguardavano luoghi di abitazione degli stessi imputati, i quali avevano chiesto l'inutilizzabilità processuale delle immagini poiché andavano a documentare eventi avvenuti in ambienti strettamente privati. Si richiamava a tal proposito il dettato dell'art. 614 c.p., il quale stabilisce una pena a carico di: “chiunque, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'articolo 614 c.p.”.

La norma in questione mira a proteggere il diritto alla riservatezza del cittadino, che si estrinseca negli ambienti domestici, così come già evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione penale, sez. V, nella richiamata sentenza n. 10498 del 08.03.2018.

Il principio generale su cui si fondano gli orientamenti giurisprudenziali degli ermellini riprendono l'assunto secondo il quale nessuno possa violare l'intimità altrui senza l'espresso consenso dell'interessato. A maggior ragione, potrebbe considerarsi lecita la possibilità di raccogliere le immagini nel domicilio privato in maniera subdola o fraudolenta (Cass. Pen. Sez. III, n. 27847 del 30.04.2015).

Non c’è interferenza illecita
Nel caso di specie, però, secondo la Corte di Cassazione non si rinviene la fattispecie di reato rubricata come“interferenze illecite nella vita privata”, che ai sensi dell'art. 615 bis c.p.“non è configurabile per il solo fatto che si adoperino strumenti di osservazione e ripresa a distanza, nel caso in cui tali strumenti siano finalizzati esclusivamente alla captazione di quanto avvenga in spazi che, pur di pertinenza di una privata abitazione, siano, però, di fatto, non protetti dalla vista degli estranei”.

L'orientamento in questione, quindi, conferma quanto già espresso in precedenti pronunce, l'ultima delle quali ad opera della Cassazione Penale Sez. III, n. 2598 del 08.01.19, sentenza che fece non poco scalpore riguardando la raccolta delle immagini considerata “non penalmente rilevante” relative ad una donna “in intimità”, videoripresa dall'esterno della finestra del proprio bagno intenta nel farsi la doccia, a dire della Corte, senza adoperare le dovute cautele per evitare di essere ripresa.

Da queste pronunce, peraltro criticate dal massimo esponente del Garante dott. Soro, il concetto di ambiente domestico nel momento in cui non è sufficientemente riparato, comporta una sorta di consenso implicito della persona offesa.

In realtà, dall'analisi del GDPR, il consenso implicito al trattamento dei dati personali, non è in alcun modo previsto, bensì, leggendo l'art. 4 del Regolamento europeo, questo deve essere una manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell'interessato, che dovrà esprimere il proprio assenso al trattamento, mediante una dichiarazione o azione positiva inequivocabile, cosa che, senz'altro, è lungi dal rinvenirsi nel caso concreto.

Unica tutela a cui potrebbe appigliarsi il privato “spiato”, appare quella che consente all'interessato di richiedere la cancellazione delle immagini, ma alla cui richiesta il titolare del trattamento potrebbe comunque opporsi, anche qualora le immagini siano illecitamente acquisite se ciò sia necessario “per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 17, par. 3, lett. e), GDPR).

Si potrebbe obiettare che, in tema di raccolta delle immagini, come esplicitato nelle Linee Guida europee n. 3/2019 pubblicate il 29/01/2020, questa è da considerarsi legittima ai sensi dell'art. 6, par. 1, lett. f), GDPR anche quando avviene, secondo il “legittimo interesse del titolare”, tra cui rientra “l'acquisizione di prove per la difesa in giudizio” del titolare stesso.

Una tale fattispecie è perfettamente calzante con il caso concreto, ma va a valutare il trattamento su di un piano squisitamente civilistico, mentre l'eccezione avanzata nella fattispecie in esame riguarda aspetti di rilevanza penale che, come detto, verrebbero a mancare.

Andando quindi a considerare lecito il trattamento oggetto del giudizio sia sotto un profilo penale che civile, possiamo concludere che rischia di rimanere totalmente privo di difesa un domicilio che sia poco tutelato da occhi indiscreti, venendo meno lo spirito intrinseco che ha portato alla formulazione del GDPR, che si ispira alla tutela del dato nell'ottica di un trattamento finalizzato e circoscritto, tale da dover porre in primo piano il diritto del cittadino a tutelare la sua riservatezza nei luoghi più intimi che lo riguardano.

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