Condominio

Se il divieto di sopraelevare è per motivi estetici non può essere assoluto

di Valeria Sibilio


Il tema delle sopraelevazioni architettoniche realizzate in un edificio condominiale è stato di nuovo trattato dalla Cassazione pochi giorni fa nella sentenza 21003 del 2019. Il caso era originato dall'atto di citazione di un condòmino nei confronti del proprietario di un'altra unità immobiliare facente parte dello stesso comprensorio, chiedendone la condanna al ripristino dello stato antecedente la costruzione di una sopraelevazione, operata da quest'ultimo, realizzata sul proprio terrazzo in violazione della servitù di sopraelevare gravante sulle unità abitative dell'intero complesso tenute all'osservanza di una serie di vincoli, preordinati a mantenere l'iniziale ed unitaria configurazione architettonica ed estetica.
L'amministratore, costituitosi, eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva. Dopo una perizia effettuata, il Tribunale di Udine rigettava la domanda del condomino attore rilevando che la servitù convenzionale non impediva qualsiasi limitazione, limitando tale facoltà solo ad un criterio estetico, in questo caso non violato, come accertato dal CTU e visibile nelle foto allegate alla sua relazione. Avverso la decisione proponeva impugnazione l'attore, limitatamente al capo che rigettava la propria domanda. Giudizio confermato in secondo grado con la condanna dell'appellante al pagamento delle spese di giudizio.
La cassazione di tale sentenza veniva chiesta dal precedentemente appellante con un ricorso affidato a due motivi.
Nel primo, il ricorrente lamentava l'erronea interpretazione della Corte nel ritenere che la costruzione realizzata non violava la servitù in quanto limitata a far rispettare l'uniformità architettonico, non tenendo conto dell'assolutezza del diritto di servitù, che dove violata non tollera una indagine sulla sussistenza di un pregiudizio effettivo del fondo dominate. Un motivo, per gli ermellini, infondato non solo perché si risolve nella richiesta di una diversa interpretazione di una clausola contrattuale, attività riservata al Giudice del merito, ma, soprattutto, perché, il diritto di servitù per quanto diritto assoluto può avere, come nel caso in esame, un contenuto specifico, il rispetto di una uniformità architettonica. La Corte distrettuale aveva precisato che nella clausola costitutiva del vincolo reale, il requisito dell'utilità della servitù si identificava nella salvaguardia dell'uniformità architettonica e nell'estetica dell'intero complesso residenziale, con la conseguenza che, entro certi limiti, andava circoscritta sia la relativa estensione sia la modalità di esercizio.
Nel secondo motivo,per la ricorrente, la Corte distrettuale non avrebbe ricostruito correttamente la comune intenzione delle parti e di aver omesso di motivare la decisione di attribuire natura tassativa anziché esemplificativa all'utilità esteriorizzata dalle parti. Una censura ritenuta, dalla Suprema Corte, senza ragione di essere. La parte ricorrente si era limitata ad opporre, all'interpretazione del contratto data dai giudici, la propria soggettiva lettura di quello stesso contratto, rendendo evidente il non accoglimento del motivo di ricorso.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando la ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente, le spese del giudizio, liquidate in euro 6.000,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% del compenso ed accessori come per legge.

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