Condominio

«Dehors» del bar, l’area può essere liberata dal proprietario

di Rosario Dolce

Il titolare di un bar installa sul marciapiede privato un dehor costituito da una pedana in legno, posizionata parallelamente rispetto al locale bar di proprietà della stessa, lunga metri 6 e larga metri 1,75 (quindi per una superficie di circa mq 10,5) ancorata alle pareti del bar tramite una struttura in ferro, coperta con una tenda congiunta con il muro esterno dello stesso bar.
Il proprietario dell'area lo cita in giudizio, chiedendo il rilascio del bene e il risarcimento del danno derivante dalla illegittima occupazione.
La causa viene definita con sentenza del Tribunale di Savona nr 224, pubblicata in data 29 marzo 2019 (G.I. dott. Fabrizio Pelosi) e ancora inedita.
Il provvedimento risulta assai interessante per l'iter argomentativo svolto ed offre importanti chiavi di lettura in punto di esatto bilanciamento degli oneri probatori tra le parti processuali. Esaminiamolo nel dettaglio.
Il provvedimento
L'azione promossa dall'attore si inquadra nella previsione dell'art. 948 Codice civile, a mente del quale: «Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno [2789]».
Infatti, la richiesta è la condanna alla restituzione della cosa, sorretta dalla titolarità del diritto di proprietà.
In tali fattispecie la giurisprudenza è costante nell'affermare che l'attore che agisca in rivendica deve dimostrare il suo diritto di proprietà, provando di aver acquistato la proprietà a titolo originario.
Non è, invece, sufficiente dimostrare l'esistenza in proprio favore di un titolo di acquisto a titolo derivativo (Cassazione civile 21940/18) che potrebbe essere viziato dal difetto di legittimazione a disporre in capo al dante causa che, in applicazione del principio nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet, avrebbe tolto efficacia all'acquisto.
Il convenuto in rivendica, invece, non avrebbe alcun onere di giustificare il proprio possesso ed è i grado difendersi invocando il principio possideo quia possideo.
Peraltro, la giurisprudenza attenua il rigore probatorio dell'azione di rivendica in due casi:
-nel caso di discendenza della titolarità da un comune dante causa;
-nel caso di proposizione di domanda/eccezione di usucapione.
Quanto alla seconda ipotesi, la giurisprudenza non è univoca: in senso contrario, si veda, a titolo di esempio la recente Cassazione civile (14734/18) secondo cui comunque il rivendicante deve dimostrare un acquisto a titolo originario.
Anche la giurisprudenza favorevole all'attenuazione dell'onere probatorio, peraltro, non è univoca, in quanto, accanto ad alcune sentenze che ritengono che l'attenuazione operi sempre ogni qual volta sia proposta una domanda riconvenzionale o un'eccezione di usucapione (si veda, ad es., Cass. 5487/02), si colloca altra giurisprudenza che è ben più articolata, ritenendo che tale attenuazione opera solo nel caso in cui l'allegato acquisto per usucapione cominci a decorrere dopo l'acquisto del rivendicante.
Solo in questo caso, infatti, l'onere probatorio del rivendicante può legittimamente ritenersi assolto, nel fallimento dell'avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare (sul punto, si richiama, a titolo di esempio, Cassazione civile 8215/16).
Quanto, invece, all'altra ipotesi di attenuazione dell'onere della prova in capo al rivendicante, la giurisprudenza dà rilievo ad ammissioni del convenuto o a mancate contestazioni in ordine alla titolarità del diritto da parte di un comune dante causa.
Sotto tale ultimo profilo la giurisprudenza è costante nell'affermare che, in tema di azione di rivendicazione, nel caso in cui il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l'onere probatorio a carico dell'attore si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene medesimo al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, ed alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (Cassazione civile 25793/16; 694/16; 19653/14; 9303/09).
Conclusioni
Sono questi i principi di cui fa applicazione il giudice ligure, la sentenza del 13 marzo 2019.
In seno al provvedimento il giudice ligure rileva che, nella fattispecie trattata, l'attore in rivendica ha potuto giovarsi di un attenuazione del proprio onere probatorio, legittimandosi la propria domanda in ragione del “solo” titolo derivativo offerto in comunicazione (prevalente su quello avversario). Ciò, in quanto, il convenuto non ha mai contestato, nel corso del giudizio in questione, la titolarità del bene rispetto i comuni “dante causa”.
La domanda dell'attore è stata così accolta ed il titolare del bar sarà tenuto, pertanto, a rimuovere la struttura realizzata nell'are antistante il proprio locale.

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