Condominio

Può fallire anche la società che amministra il condominio

di Marco Giovanni Lualdi e Fausto Moscatelli

La sentenza 22840/2006 già affermava che l’evoluzione della figura dell’amministratore portava a ragionevolmente pensare - avuto riguardo al continuo incremento dei compiti - che questi potessero venire assolti in modo migliore dalle società (di servizi), che nel loro ambito annoverano specialisti nei diversi rami.

Oggi la legge 4/2013 parla espressamente di esercizio societario della professione non ordinistica (articolo 1, comma 5) e l’articolo 71 bis delle Disposizioni di attuazione del Codice civile ammette le società che amministrano immobili (in tal caso, i requisiti devono essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condomini a favore dei quali la società presta i servizi).

Effettivamente gli amministratori condominiali, più ancora di altri professionisti, hanno manifestato gradimento verso questa forma. Anaci, una delle più rappresentative associazioni degli amministratori condominiali, conta oltre 8mila iscritti di cui 900 società (proprio a questo tema è dedicato il convegno che si svolgerà venerdì 31 maggio, ore 9-20, a Malpensafiere).

Va subito detto che il rinvio di queste norme al regime societario del titolo V del libro V del Codice civile, se da un lato preclude la scelta della società cooperativa, dall’altro sottrae le società di amministrazione condominiale al regime delle società tra professionisti (Stp) regolamentata dal Dm 34/2013 (possono aprire una Stp i soli professionisti appartenenti alle professioni “protette”, cioè quelle che prevedono obbligatoria iscrizione a collegi, ordini e albi specifici).

La complessità della struttura può rendere oggettivamente complessa anche la gestione dei suoi momenti “patologici” e in particolare del momento in cui l’attività sia incapace di raggiungere il livello minimo di equilibrio economico, con conseguente insorgenza di una vera e propria situazione di crisi o addirittura di insolvenza.

La legge fallimentare del 1942 è stata improntata sulla scelta del soggetto “fallibile” in chiave soggettiva e non oggettiva; ciò che fallisce è l’imprenditore commerciale , qualificato come tale dal Codice Civile, e non l’impresa.

Il professionista intellettuale, in ragione della natura dell’attività svolta, certamente non può essere compreso nel concetto di imprenditore commerciale e non può essere “in astratto” sottoposto a procedura fallimentare, non potendosi qualificare sotto il profilo soggettivo un imprenditore commerciale.

La possibilità che l’attività professionale sia svolta in forma associata o societaria, non mutando la natura della prestazione, sembrerebbe ancora una volta escluderne la fallibilità sui medesimi presupposti soggettivi.

Peraltro tale affermazione è destinata in concreto a essere sottoposta a un momento di “tensione” in ragione delle possibili e complesse strutture organizzative che l’attività in forma associata o societaria potrebbe assumere.

Come per le Stp, anche per la società amministratrice di condominio la semplice corrispondenza allo schema normativo previsto dalla legge (la legge 4/2013) potrebbe non mandare esente da fallibilità l’associazione o la società qualora la stessa attività assuma in concreto i connotati dell’imprenditorialità, nella quale l’esercizio dell’attività professionale costituisca mero elemento di una attività organizzata in forma di impresa.

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