Condominio

Il diritto di servirsi della cosa comune non si estende a unità immobiliari estranee al condominio

di Valeria Sibilio

Trattare problemi inerenti le servitù di passaggio è frequente all'interno dell'universo condominiale, tenuto conto che, sovente, il diritto reale del suo godimento viene tradotto in una comodità individuale.
Con l'ordinanza 13213 del 2019, la Cassazione ha trattato una vicenda inerente questa problematica. In origine c’è il rigetto, da parte del tribunale di Nola, della domanda proposta da un gruppo di condòmini atta ad accertare l'inesistenza di una servitù di passaggio a carico di una stradina e ad alcune particelle di proprietà di due vicini che avevano iniziato a fruirne anche a favore di un'altra particella dopo aver abbattuto una palizzata di delimitazione.
Successivamente la Corte d'Appello riformava tale decisione, accogliendo la domanda dei vicini appellanti, dichiarando il loro fondo esente da servitù, ma rigettando, tuttavia, la domanda risarcitoria. Per i giudici, l'atto di donazione e divisione prevedeva, quale patto espresso, la costituzione di una stradina a servizio specifico delle particelle costituenti le quote di divisione, con un collegamento funzionale solo con le unità immobiliari indicate. Conseguentemente la Corte ha ritenuto irrilevante la qualificazione astratta della stradina come bene in comunione o condominiale.
Valendo il principio per cui il diritto del partecipante di servirsi della cosa comune non può estendersi a vantaggio di unità immobiliari estranee alla comunione o al condominio, nessuna forma di servitù poteva essere posta a carico della cosa comune se non con il consenso dei compartecipi e non poteva farsi alcun uso idoneo a mutare la destinazione.
Contro questa sentenza, i condòmini ricorrevano in Cassazione sulla base di cinque motivi, ai quali i vicini resistevano con controricorso. Nel primo, lamentavano che la Corte d'Appello avesse fondato l'accoglimento della domanda in modo irrituale su un divieto pattizio non dedotto in giudizio. Motivo giudicato inammissibile in quanto è apparso evidente che la disamina del titolo negoziale in base al quale si è stabilito il vincolo tra la stradina comune e le particelle in proprietà esclusiva valeva solo a determinare il regime giuridico applicabile, senza che in alcun modo fosse predicata l'esistenza di un divieto pattizio relativamente a uno o più usi della stradina.
Nel secondo motivo, i ricorrenti sostenevano che la clausola negoziale, contenuta nel patto, non imponeva alcuna specifica destinazione alla strada, mentre, nel terzo, deducevano che le controparti avrebbero dovuto provare, mediante esibizione della nota di trascrizione, l'avvenuta pubblicità del vincolo di destinazione, altrimenti inopponibile ai ricorrenti. Due motivi connessi, esaminati congiuntamente e dichiarati inammissibili. La sentenza impugnata ha esaminato il titolo che ha costituito la stradina come bene comune ai proprietari esclusivi di altre particelle senza in alcun modo presupporre l'esistenza di un qualcosa che, nell'accordo divisorio, avrebbe potuto impedire ad altri un uso più intenso del bene in comunione. La verifica della destinazione della cosa comune era stata operata non al fine di dimostrare l'esistenza di un vincolo contrattuale limitativo del suo uso a vantaggio di altre entità fondiarie, ma per evocare quale fosse la destinazione rilevante in base alla norma ex art. 1102 cod. civ. che vieta gli usi che comportano un mutamento di destinazione della cosa comune, mutamento che sarebbe sussistito ammettendo l'apertura di un varco al servizio di una particella estranea al compendio.
Nel quinto motivo, secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata incorrerebbe in censure nella parte in cui disponeva il ripristino della palizzata di confine abbattuta per realizzare l'accesso alla stradina. Motivo è infondato in quanto l'originaria domanda era stata rivolta non solo all'accertamento del diritto di comproprietà degli attori libero da servitù a favore di fondi estranei all'originario compendio divisionale, ma anche a respingere l'imposizione, mediante la creazione di varco in corrispondenza di parte della preesistente palizzata, di un'opera visibile e destinata all'esercizio di un passaggio suscettibile, con il passare del tempo, di dare luogo all'acquisto di servitù per usucapione. In tale situazione, è apparso irrilevante che l'imposizione della limitazione provenisse dall'abbattimento parziale del tratto di palizzata.
Nel quarto motivo, per i ricorrenti, la sentenza impugnata avrebbe affermato il principio di diritto secondo cui la facoltà del servente o del condominio di far un uso più intenso della cosa comune, non si estenderebbe a vantaggio di entità immobiliari estranee, pur se di proprietà o in possesso del coutente stesso. Motivo, anche questo, ritenuto infondato, non avendo espresso il principio secondo cui sarebbe lecito al proprietario esclusivo di un fondo di estendere il godimento della cosa comune a vantaggio di un ulteriore fondo non incluso tra quelli avuti presenti al momento dell'atto di destinazione. L'art. 1102 cod. civ. dispone che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca il pari uso degli altri partecipanti secondo il loro diritto. Inoltre, l'art. 1108 terzo comma cod. civ. prevede il consenso di tutti i partecipanti per la costituzione di diritti reali sul fondo comune. Due norme che, per quanto non espressamente previste per il condominio negli edifici, sono anche applicabili in tale ambito. Per gli ermellini, il condomino che utilizza una parte comune, modificandola, per dar accesso a un fabbricato contiguo, ad esso estraneo, anche se di sua esclusiva proprietà, altera la destinazione della parte comune comportandone, per la possibilità di far usucapire al proprietario del fabbricato contiguo una servitù, lo scadimento ad una condizione deteriore rispetto a quella originaria. Per la creazione di una servitù a carico del condominio, è richiesto il consenso di tutti i partecipanti alla comunione risultante da atto scritto a pena di nullità. Inoltre, l'uso della parte comune per creare un accesso a favore di una parte esclusiva è legittimo se l'unità del condòmino avvantaggiata è inserita nel condominio, in quanto, pur realizzandosi un utilizzo più intenso del bene comune da parte di quel condòmino, non si esclude il diritto degli altri di farne uso e non si alteri la destinazione, restando esclusa la costituzione di una servitù per effetto del decorso dei tempo. Conseguentemente, il giudice di merito può ritenere uso normale del muro comune l'apertura di un varco che consenta la comunicazione tra il proprio appartamento e un'altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, solo se ricompresa nel medesimo edificio condominiale, dovendo il giudice stesso adeguatamente motivare circa la sussistenza o l'insussistenza di un unico condominio. Al di là della costituzione di varchi e aperture, gli stessi principi si applicano in caso di ritrazione di altre utilità a vantaggio di proprietà esclusive estranee e a carico di parti comuni.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando i ricorrenti alla rifusione, a favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

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