Condominio

Telecamere che inquadrano la via, si può installarle anche se i vicini sono infastiditi

di Enrico Morello ed Edoardo Valentino

Non è colpevole del reato di violenza privata il proprietario che istalla le telecamere di sicurezza sul muro perimetrale della sua proprietà dato che, anche se riprende la pubblica via, il suo intento non è quello di danneggiare le persone o ledere la loro privacy, ma solo quello di difendere i beni e gli abitanti della casa.
Questo il principio espresso dalla sentenza Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 13 maggio 2019 numero 20527.
La vicenda comincia con la condanna di due soggetti per il reato di violenza privata.
Tale fattispecie, prevista e punita dall'articolo 610 del Codice Penale, prevede che «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni».
La condotta tenuta dagli imputati era stata quella di istallare delle telecamere di sicurezza sul muro perimetrale della loro proprietà, ma dirette sulla pubblica via.
La presenza di queste apparecchiature aveva comportato lamentele da parte dei vicini, i quali affermavano anche di avere ricevuto rimproveri e minacce di denunce dagli imputati per i loro comportamenti.
A seguito della condanna in primo grado, i due vicini agivano in appello, domandando la riforma della sentenza e la loro assoluzione.
La Corte d'Appello, tuttavia, ribadiva la condanna irrogata dal Tribunale, modificando solamente il trattamento sanzionatorio.
I due condannati depositavano quindi due ricorsi in Cassazione con i quali lamentavano la violazione da parte della Corte d'Appello dell'articolo 610 del Codice Penale e chiedevano quindi la riforma della sentenza.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, accoglieva i ricorsi dei condannati.
Secondo gli Ermellini, infatti, i giudici di merito avevano errato nell'interpretare la fattispecie di reato connessa al caso in questione.
Nel caso in oggetto, infatti, non era secondo la Cassazione contestabile il reato di violenza privata.
Al fine della consumazione di tale fattispecie delittuosa doveva verificarsi una grave violazione della libertà individuale delle vittime, perpetrata dai colpevoli tramite violenza o minaccia.
Secondo la Corte, poi, la nozione di violenza era riferibile a qualsiasi atto posto in essere dall'agente che si risolva nella “coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo, che viene così indotto, contro la sua volontà a fare, tollerare o omettere qualche cosa, indipendentemente dall'esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico ” (così nella sentenza in commento, che richiamava Cass. 1176/2013).
Nel caso in oggetto, tuttavia, l'esame della fattispecie avrebbe dovuto comportare l'assoluzione dal reato di violenza privata in quanto non sussistevano gli elementi soggettivo e oggettivo a sostegno della condanna.
Dal punto di vista dell'elemento soggettivo, i soggetti agenti delle condotte non avevano – pacificamente – come scopo quello di nuocere ai vicini e passanti, violando la loro privacy e cagionando una variazione delle loro abitudini (ad esempio il riferito cambio di itinerario di alcuni passati per non essere ripresi).
Dato che l'intento principale dei condannati era quello di difendere cose e persone all'interno delle loro abitazioni, i pregiudizi lamentati dalle vittime della condotta non erano voluti.
Dal punto di vista dell'elemento oggettivo, continuava la Cassazione, l'istallazione delle telecamere non era di per sé una condotta illecita, né lo erano le concrete modalità di attuazione delle riprese.
I condannati, infatti, avevano provveduto ad affiggere cartelli informativi delle riprese, segnalando la presenza delle telecamere a tutela della privacy dei terzi.
Nonostante i lamentati pregiudizi subiti dai vicini, quindi, non si sarebbe verificata nel presente caso “l'offesa al bene giuridico protetto dalla norma di cui all'art. 610 cod. pen., trattandosi di condizionamenti minimi indotti dalle condotte de quibus, tali da non potersi considerare espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione”.
Nel caso in questione, quindi, il reato non si era consumato, dato che occorreva operare un contemperamento tra le esigenze di riservatezza dei terzi (peraltro ragionevolmente limitate, trovandosi il luogo della condotta su una via pubblica) e le esigenze di sicurezza dei soggetti-agenti.
Alla luce delle predette considerazioni la Cassazione, all'esito del giudizio, annullava la sentenza di appello senza rinvio, concludendo che «non è configurabile il delitto di violenza privata allorquando gli atti di violenza non siano diretti a costringere la vittima ad un “pati”, ma siano essi stessi produttivi dell'effetto lesivo, senza alcuna fase intermedia di coartazione della libertà di determinazione della persona offesa».

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