Condominio

Il diritto di aprire una porta sulla via dà diritto a una servitù di passaggio

di Valeria Sibilio

Storie legate a servitù di passaggio e servitù di vedute sono frequenti nel variegato universo condominiale. Quella esaminata dalla Cassazione nell'ordinanza 9151 del 2019 vede protagonisti i proprietari di un terreno adibito a strada, per sei metri, per il passaggio concesso dagli stessi a tre acquirenti di un altro suolo edificatorio, e confinante in parte con il fabbricato di proprietà di due attori.
I ricorrenti, convenendo in giudizio questi ultimi dinanzi al Pretore di Melfi, deducevano che uno degli attori aveva illegittimamente aperto una porta di accesso e una finestra sul confine che dal muro est affaccia sul loro fondo. I ricorrenti chiedevano che fosse dichiarata l'inesistenza di servitù di passaggio a carico del fondo di loro proprietà e che fosse ordinata, ai convenuti, di eliminare la porta di accesso al locale terraneo attraverso il terreno di proprietà degli attori.
I convenuti, costituendosi in giudizio, contestavano la domanda proponendo domanda riconvenzionale affinché fosse dichiarato il loro diritto all'utilizzo della servitù di passaggio. Contro la sentenza del tribunale di primo grado che accoglieva il ricorso, i precedentemente convenuti proponevano appello rilevandone l'erroneità per aver negato il loro diritto di servitù, in quanto, nell'atto compravendita con il quale era stato acquistato il terreno, era stata costituita una servitù di veduta e pertanto l'acquirente poteva aprire porte e finestre lungo la strada privata larga sei metri. Inoltre lamentavano l'esclusione dell'uso pubblico della strada nella quale l'amministrazione comunale aveva eseguito vari interventi esercitando il diritto al passaggio pedonale ed al transito veicolare di una moltitudine di persone.
Gli attori precedentemente ricorrenti si costituivano chiedendo il rigetto dell'appello rilevando la sua inammissibilità per l'inesistenza di qualsiasi diritto di servitù in favore del fondo degli appellanti, oltre alla irrituale e tardiva produzione di documentazione inerente il motivo d'appello riguardante l'uso pubblico della strada in questione. La corte d'appello, in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda proposta dagli attori, condannandoli a rimborsare, agli appellanti, le spese di lite, evidenziando che il giudizio era stato introdotto in data anteriore al 30 aprile 1995, rendendo ammissibili sia le nuove eccezioni, che la produzione di nuovi documenti.
La Corte, per stabilire se, con l'atto di compravendita, il venditore avesse gravato, o meno, il fondo servente, oltre che di una servitù di veduta, anche di una servitù di passaggio, aveva rilevato che la funzione della porta era di consentire il transito da un luogo ad un altro e che pertanto l'apertura di una porta costituisce di per sé esercizio di una servitù di passaggio, concludendo l'interpretazione dell'atto di compravendita non poteva indurre a ritenere che, prevedendo il diritto del compratore di aprire porte nell'edificio da costruire, le parti avessero escluso quella che è la funzione connaturale e propria di tali aperture, ovvero quella di consentire il passaggio. La Corte, inoltre, sulla base dei documenti e delle fotografie prodotte dagli appellanti, aveva ritenuto che i proprietari appellati avessero posto il bene volontariamente e con carattere di continuità a disposizione della collettività, assoggettandolo al relativo uso, non solo consentendo il passaggio pubblico per l'accesso ad alcuni edifici e per permettere il collegamento fra due strade pubbliche, ma anche perché non avevano contestato l'ingerenza dell'Amministrazione pubblica che aveva asfaltato la strada e regolamentato il traffico.
A fronte di tale sentenza, il proprietario del terreno ne chiedeva la cassazione della sentenza basandosi su cinque motivi, ai quali resistevano i confinanti. Con il primo motivo, il ricorrente censurava la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello, esaminando il secondo motivo d'appello, aveva ritenuto che la statuizione con la quale il tribunale aveva ordinato la chiusura della porta d'accesso, confliggesse con il diritto acquisito dagli stessi di esercitare, anche attraverso porte, la veduta su fondo altrui, laddove, in realtà, gli appellanti avevano acquistato un fabbricato di vecchia costruzione e con la servitù di veduta sul fondo servente, costituita dagli attori attraverso le tre finestre al piano rialzato. Ne consegue, per il ricorrente, che il riconoscimento da parte della corte d'appello del diritto al mantenimento dell'apertura “porta” da parte dei convenuti non fosse corretto dal momento che nel fabbricato non vi era alcuna servitù attiva di veduta al piano terra.
Con il secondo motivo, il ricorrente, censurava la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello aveva ritenuto che la servitù di veduta poteva intendersi anche come servitù di passaggio, quando, in realtà, con l'atto predetto, veniva costituita solo una servitù di veduta, attribuendo all'acquirente la facoltà di aprire finestre e porte in genere, lungo la strada privata di sei metri.
Con il terzo motivo, si censurava la sentenza nella parte in cui la corte d'appello aveva riconosciuto il diritto di servitù di passaggio, affermando che la funzione precipua della porta è quella di consentire il transito da un luogo ad un altro e che l'apertura di una porta non poteva che significare se non il diritto di utilizzare tale strada per il passaggio. Per il ricorrente, la presenza di una porta non dimostrava l'esistenza di una servitù di passaggio, potendo adempiere alla diversa funzione di fornire aria e luce
Tre motivi esaminati dalla Cassazione congiuntamente e giudicati infondati. Per gli ermellini, la corte d'appello, dopo aver accertato che, in atto di compravendita, l'acquirente avrebbe potuto aprire finestre e porte lungo la strada privata, ha ritenuto che gli appellanti avessero in tal modo acquistato non solo una servitù di veduta, ma anche una servitù di passaggio. L'interpretazione del contratto che il giudice di merito ha fornito nella sentenza impugnata è risultato, perciò, conforme alle norme che presiedono all'interpretazione del contratto e, quindi, non censurabile per violazione di tali disposizioni.
Inesistente, inoltre, il vizio di motivazione. La sentenza impugnata è stata depositata il 4 dicembre 2013, ricadendo nella formulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. quale risulta dalle modifiche introdotte dall'art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, conv. con la I. n. 134 del 2012. Una disposizione che non contempla più il vizio d'insufficiente o contraddittoria motivazione della decisione circa un punto decisivo, ma una censura del tutto autonoma, riguardante all'omesso esame di un fatto materiale, principale o secondario, risultante dagli atti ed avente carattere decisivo, idoneo a determinare un diverso esito del giudizio con carattere di certezza e non di mera probabilità del giudizio. Ne consegue che il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, cosa non avvenuta nel caso esaminato.
Con il quarto motivo, il ricorrente censurava la sentenza nella parte in cui la corte d'appello aveva esaminato, pur in mancanza di domanda riconvenzionale, il terzo motivo d'appello con il quale la sentenza del tribunale era stata censurata per non aver riconosciuto che sul fondo per cui si controverte si era realizzato l'uso pubblico formulando valutazioni illogiche e contraddittorie posto che non ricorreva l'ipotesi della volontaria costituzione della servitù di uso pubblico della strada difettandone il presupposto. La documentazione prodotta e le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio avevano dimostrato che il Comune, senza alcun progetto o procedimento espropriativo, aveva provveduto ad asfaltare la stradina privata e che tale ingerenza era stata contestata dagli attori dapprima con atto di diffida del 16 marzo 1993 e poi con azioni giudiziarie. Per il ricorrente, l'assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico non implicava la facoltà dei proprietari frontisti di aprire accessi diretti dai loro fondi su detta strada privata. Un motivo, questo, assorbito dal rigetto dei primi tre.
Nel quinto motivo, il ricorrente lamentava che la corte di secondo grado, dopo aver rigettato l'eccezione degli appellati d'inammissibilità delle domande, delle eccezioni e dei fatti nuovi proposti con l'appello, avesse liquidato le spese di entrambi i gradi di giudizio secondo il principio della soccombenza. Motivo, per gli ermellini, risultato infondato. Il sindacato della Corte di Cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell'art. 92, comma 2°, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un'esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente. (Cass. n. 30592 del 2017).
La Suprema Corte ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando il ricorrente a rimborsare, ai controricorrenti, le spese di lite, liquidate in euro 1.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%.

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