Condominio

Il ristorante non può «allargarsi» alle aree in cui il regolamento vieta l’attività

di Valeria Sibilio


In materia di attività commerciali in condominio, il rispetto del regolamento condominiale di natura contrattuale è alla base dell'avvio dell'attività stessa. Se tale regolamento la limita solo ad alcuni locali, la possibilità di unificare questi ultimi con altre porzioni non consente di aggirare il divieto.
È quanto è emerso dall'ordinanza 129 del 2019 nella quale la Cassazione ha esaminato un caso legato ad una attività ristorativa in condominio. La vicenda trae origine dal ricorso, dinanzi al Tribunale di Milano, di un attore che conveniva la proprietaria-locatrice ed il conduttore dell'attività ristorativa i quali avevano adibito a tale finalità non soltanto lo spazio consentito dal regolamento condominiale, ma, violando la pattuizione antecedente al rogito ed al suddetto regolamento, anche una porzione mappale limitrofa. I
l ricorrente chiedeva l'accertamento della limitazione regolamentare all'attività commerciale, la violazione della pattuizione e, conseguentemente, la cessazione immediata dell'esercizio nello spazio occupato abusivamente, oltre alla rimozione, dal suddetto spazio, di qualsiasi struttura, strumento o manufatto strumentale connesso all'esercizio di tale attività.
Il Tribunale di Primo Grado, accogliendo la domanda del ricorrente, condannava la proprietaria-locatrice e la conduttrice dell'esercizio commerciale alla immediata cessazione dell'attività ristorativa ed alla rimozione della relativa attrezzatura nello spazio occupato impropriamente, rilevando l'esistenza nel regolamento condominiale di una specifica clausola volta a limitare lo svolgimento dell'attività alla sola unità immobiliare contraddistinta al sub 815 del foglio 309, mapp. 304 in NCEU di Milano.
Statuizione, in seguito, confermata integralmente dalla Corte di appello con la sentenza n. 841/17, contro la quale la conduttrice dell'attività ricorreva in Cassazione basando il ricorso su due motivi, nel primo dei quali denunciava la nullità della sentenza deducendo che il Tribunale aveva accolto la domanda dell'attore unicamente sotto il profilo della violazione del regolamento condominiale, disattendendo la violazione dell'accordo concluso anteriormente al rogito. La corte territoriale avrebbe, invece, fondato l'accoglimento della domanda anche sulla violazione dell'accordo suddetto. Non solo, ma contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale, la ricorrente aveva specificamente contestato sia la suddetta pattuizione che il contenuto della stessa.
Giudicando il motivo infondato, gli ermellini hanno chiarito che la Corte territoriale aveva fondato l'accoglimento della domanda di cessazione dell'esercizio di ristorazione sulla disposizione dell'art. 12 del regolamento condominiale, che consentiva l'attività solo nelle porzioni adibite a tale finalità. L'accordo tra l'attore precedentemente ricorrente e la conduttrice era stato, perciò, preso in esame quale antecedente logico ed elemento di interpretazione della disposizione regolamentare violata, potendo da tale accordo desumersi la concreta finalità perseguita mediante la suddetta previsione regolamentare. La seconda censura risultava, invece, inammissibile per carenza di interesse, in quanto la Corte territoriale aveva fondato l'accoglimento della domanda sulla disposizione del regolamento condominiale che superava l'accordo antecedente.
Nel secondo motivo di ricorso, si denunciava la violazione e la falsa applicazione di una serie di articoli, contestando l'interpretazione data dalla Corte territoriale all'art. 12 del reg. di Condominio. Un motivo giudicato, dalla Suprema Corte, infondato. L'inammissibilità della censura sollevata in relazione all'art. 2697 c.c. e all'art.115 cpc si basava sul fatto che, rispetto al primo articolo, la violazione si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, mentre, rispetto al secondo articolo, per dedurne la violazione è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove ritualmente dedotte dalle parti, restando escluso ogni sindacato sul merito della loro valutazione, riservata al giudice di merito. Infondata anche la censura relativa all'errata applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. , non ravvisandosi la violazione di nessuno dei canoni interpretativi richiamati dal ricorrente. La Corte di merito aveva rilevato che l'art. 12 del regolamento condominiale vietava, in via generale, la destinazione di unità immobiliari ad attività di ristorazione, con la sola eccezione di quelle poste al piano terra.
In presenza di tale inequivoca disposizione, la Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante la mancanza di porzioni evidenziate nella planimetria unita al regolamento condominiale, non potendo attribuirsi a tale mancanza I' abrogazione o inefficacia della clausola n.12 del regolamento, in forza della quale era consentito svolgere attività di ristorazione nella sola porzione adibita a tale scopo. Secondo quanto ritenuto dal giudice di merito, l'art 18 del Regolamento condominiale attribuiva alla conduttrice la facoltà di unificare più porzioni di sua proprietà, ma non anche quella di aggirare il divieto del citato art.12, ampliando lo spazio destinato alla ristorazione. L' interpretazione della corte territoriale è apparsa, dunque, conforme non solo al significato letterale del Regolamento condominiale, ma anche al principio di conservazione del contratto ( art. 1367 c.c.) ed alla conformità alla natura ed oggetto del regolamento condominiale (art. 1369 c.c.), che esprimeva la comune intenzione dei contraenti di limitare l'esercizio di attività potenzialmente foriere di immissioni nocive.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando il ricorrente alla refusione delle spese di giudizio, liquidate in euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.

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