Condominio

Nulla la modifica non unanime delle clausole contrattuali del regolamento

di Selene Pascasi

Per ritoccare le tabelle millesimali, salvo diversa convenzione sulla disciplina dei parametri di riparto delle spese, sarà possibile procedere a maggioranza qualificata solo ove se ne escluda la matrice negoziale. Lo ricorda la Corte di cassazione con sentenza n. 24946 del 10 ottobre 2018 (relatore Gorjan) . Ad aprire il caso, finito in prima battuta sul tavolo del tribunale di Roma, sono i proprietari di alcuni garages. Perno della discordia, la delibera assunta dal supercondominio che inizialmente inglobava più stabili e che, una volta sciolto, amministrava gli unici beni rimasti in comunione: cortile e androne d'accesso. Quella decisione, precisano, era lesiva dei loro diritti domenicali nonché nulla perché variava i criteri di riparto delle spese sui beni comuni senza essere sorretta dall'unanimità dei consensi espressamente richiesta dall'articolo 1123 del Codice civile. Il tribunale capitolino concorda e boccia la delibera ma la Corte di appello, sollecitata dal gestore delle parti comuni, ribalta le sorti della causa e la “salva”. Nel regolamento sui criteri di riparto degli esborsi, avente natura contrattuale, era inclusa – spiega il collegio – una clausola che ne consentiva la riforma a maggioranza assoluta. Per rivedere quei parametri, quindi, non era indispensabile il voto favorevole di tutti i condòmini. I proprietari delle rimesse, però, non desistono e affidano la lite ai giudici di legittimità contestando, principalmente, il fatto che non si sarebbe potuto metter mano alle tabelle millesimali senza unanimità di consensi. Motivo accolto. A prescindere da altri rilievi strettamente tecnici, a pesare sul piatto della bilancia – chiariscono i giudici – è la violazione da parte dell'assemblea delle norme dedicate alla modifica dei criteri di ripartizione delle spese comuni (articoli 1136 e 1138 del Codice civile). Decisiva, anche la parola della Corte di cassazione che, con sentenza n. 943/1999 resa a sezioni unite, intervenne a marcare come le clausole di natura contrattuale del regolamento condominiale potessero mutare solo all'unanimità. Peraltro, la natura negoziale o meno, non avrebbe potuto incidere sulla soglia di voti necessaria per apportarvi cambiamenti ma solo sulle limitazioni ai diritti dei proprietari legate al godimento esclusivo assegnato all'ente o a quello più incisivo riconosciuto a singoli condòmini. Ebbene, nella vicenda concreta, il regolamento conteneva sì una clausola che consentiva – in deroga ai canoni di legge – la successiva rettifica delle tabelle a maggioranza qualificata ma a tal fine sarebbe occorsa una «diversa convenzione» inerente, per l'appunto, la «diversa disciplina di detti parametri». E tale non poteva certo dirsi la clausola contrattuale tanto discussa. Del resto, l'accordo derogativo, per essere valido, deve figurare come «apposita pattuizione tra i condòmini interessati alla specifica correzione dei criteri in modo diverso rispetto a quanto stabilito» dalle norme. Requisito di cui, a ben vedere, la convenzione impugnata difettava in quanto priva del consenso unanime di tutti i condòmini interessati. Seria anomalia, questa, “costata” all'ente di amministrazione delle cose residue comuni, l'ormai cristallizzata nullità della delibera impugnata.

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