Condominio

Di chi è il terrazzo lo stabilisce la Corte di merito

di Valeria Sibilio

Stabilire se un terrazzo di un fabbricato sia di proprietà esclusiva o di parte dell'edificio destinato all'uso comune è stato il tema dell'ordinanza 20593 del 2018, nella quale la Cassazione ha esaminato un caso originato dal ricorso in Primo Grado di un condòmino che, avendo acquistato un appartamento a piano terra con annesso terrazzo a livello, conveniva a giudizio la proprietaria di un'altra unità immobiliare nello stesso stabile, per accertare il suo diritto di proprietà esclusiva sul terrazzo in questione, avendolo acquistato, a titolo derivativo da una terza attrice o, in subordine, a titolo originario in forza di usucapione. Costituendosi in giudizio, la convenuta contestava le pretese deducendo la natura condominiale del vano, proponendo domanda di reintegra ed assumendo di essere stata spogliata del possesso del locale per averlo l'attore chiuso con una struttura in muratura. Quest'ultimo chiamava in causa l'attrice, dalla quale aveva acquistato l'immobile, al fine di ottenere, in caso di accoglimento della domanda riconvenzionale, la risoluzione del contratto con restituzione del prezzo pagato ed il risarcimento del danno. Il Tribunale rigettava la domanda dell'attore, accogliendo quella riconvenzionale proposta dalla convenuta e dichiarando il terrazzo di proprietà comune. Confermava, inoltre, il provvedimento possessorio emesso in corso di causa, dichiarando inammissibili le domande proposte nei confronti dei terzi chiamati in causa, e compensava tra le parti le spese di lite, ponendo quelle di consulenza a carico di coloro che le avevano anticipate. Anche l'appello proposto dall'attore per ottenere l'accoglimento delle domande proposte in primo grado veniva rigettato con condanna al pagamento delle spese di primo grado ai controricorrenti ed al rimborso delle spese di perizia.
In Cassazione l'attore proponeva ricorso sulla base di sei motivi, ai quali si opponevano con controricorso la precedente convenuta e gli attori terzi parte in causa nella vicenda.
Nel primo motivo, per il ricorrente, il giudice del gravame avrebbe errato nel qualificare l'azione dell'attore come rivendica benché non vi fosse domanda di restituzione, oltre ad averlo erroneamente ritenuto privato del possesso, a vantaggio della convenuta, benché lo stesso si fosse dichiarato pieno proprietario e le parti in causa avessero chiesto di accertare la proprietà. La Corte d'appello, avrebbe omesso di pronunciarsi sul capo di domanda tendente ad accertare l'infondatezza della domanda riconvenzionale dell'attrice ed a dimostrare che questa aveva utilizzato il terrazzo soltanto quale conduttrice dell'appartamento di cui il terrazzo costituisce pertinenza e non quale proprietaria del diverso appartamento sito al primo piano. Nel secondo motivo, secondo quanto prospettato dal ricorrente, non sarebbe dato comprendere le argomentazioni logico-giuridiche sottese alla qualificazione del terrazzo come “condominiale”. Nel terzo motivo, essendo stato introdotto in giudizio possessorio, la concessione avrebbe “esautorato” l'azione petitoria, dal momento che il giudice non avrebbe mai potuto annullare il suo stesso provvedimento, sicché ogni successiva azione sarebbe risultata viziata da tale provvedimento, mentre la decisione finale sarebbe stata adattata alla tutela del possessorio. Tre motivi che la Suprema Corte ha trattato congiuntamente e ritenuto infondati. L'interpretazione della domanda rientra nella valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità. La Corte d'appello, sulla base degli atti processuali, ha motivatamente qualificato la domanda principale proposta dall'attore come rivendica, riconducendo quella riconvenzionale all'accertamento della natura condominiale del bene. In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene non è necessario che il condominio dimostri la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente che esso sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condòmini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova. Per la Corte d'appello, l'attore non aveva provato di aver posseduto in via esclusiva del bene, escludendo gli altri dal godimento per il tempo necessario per la usucapione.
Nel quarto motivo, per la parte ricorrente, in mancanza di una eccezione o deduzione sul punto, con riferimento alle risultanze istruttorie, il giudice non poteva attribuire al bene controverso una definizione tecnica diversa e qualificare il terrazzo a livello come portico, omettendo di spiegare per quale motivo un terrazzo a livello non possa essere ubicato al piano terra, prevalendo il carattere della pertinenza rispetto all'unità immobiliare. Sotto altro profilo si deduceva che l'insieme delle prove legali dedotte avrebbe evidenziato che la piena proprietà del terrazzo a livello si era già consolidata in capo all'originaria proprietaria che l'aveva trasferita ai successivi. Le risultanze istruttorie e la consulenza d'ufficio avrebbero dimostrato la fondatezza della domanda di accertamento dell'usucapione proposta in via subordinata, richiamando un periodo di possesso qualificato e ininterrotto a far data dal 1986, data in cui l'appartamento in oggetto si era configurato nella sua consistenza attuale per effetto del frazionamento effettuato dalla proprietaria dell'epoca che aveva esercitato un legittimo possesso anche tramite l'inquilina precedentemente convenuta. Motivo anch'esso infondato, in quanto la valutazione delle risultanze istruttorie è riservata al giudice del merito che ha confermato la decisione di prime cure alla luce della consulenza tecnica d'ufficio disposta e delle ulteriori risultanze documentali.
Nel quinto motivo, il ricorrente lamentava il fatto che il giudice del primo grado aveva dichiarato l'inammissibilità della chiamata in causa di una terza attrice dopo averla autorizzata. La sentenza, pertanto, sarebbe illegittima, mentre la dichiarazione di inammissibilità delle chiamate in causa avrebbe determinato la violazione del principio di tutela dell'ordine pubblico alla celerità dei processi. Essendosi tutte le parti tempestivamente costituite senza alcuna preclusione, l'ingiustificato annullamento di tale attività contrasterebbe con la regola del giusto processo e col principio del diritto alla difesa dell'attore che, chiamando in causa la venditrice, ha dichiarato di volersi avvalere della norma di cui all'art. 1485 c.c. la quale prevede che, in mancanza di tempestivo esercizio della facoltà, il compratore perde la dedotta garanzia. I chiamati in causa, quindi, hanno partecipato all'attività istruttoria, ampliandola, sicché la loro presenza non poteva correttamente essere eliminata con una pronuncia di inammissibilità. Motivo infondato, in quanto la chiamata in causa di un terzo, a differenza dell'ordine di integrazione del contraddittorio, involge valutazioni circa l'opportunità di estendere il contraddittorio ad altro soggetto ed è sempre rimessa alla discrezionalità del giudice di primo grado, onde il relativo potere, comunque esercitato, in senso positivo o negativo, non può essere oggetto di censura con il mezzo dell'appello o del ricorso per cassazione. Improprio anche il richiamo ai principi del giusto processo e della celerità dei tempi di trattazione, giacché nella specie non si configura alcuna loro lesione.
Nel sesto motivo, infondato per la Suprema Corte, per l'attore, la sentenza impugnata sarebbe illegittima nella parte in cui aveva accolto l'appello incidentale, proposto dal convenuto, avente ad oggetto la parte della sentenza di primo grado in cui erano state compensate interamente tra le parti le spese di giudizio, ivi comprese quelle della CTU, ritenendo che, sul punto, non fosse comprensibile in che modo “la natura della controversia” e la “qualità delle parti” avessero potuto incidere sulla decisione. Per gli ermellini, la Corte d'appello ha riformato la decisione di compensazione delle spese in primo grado tra l'attore ed il convenuto ritenendo non comprensibile il riferimento del tutto generico alla “natura della controversia” e alla “qualità delle parti”, regolando il governo delle spese sulla base della soccombenza.
La Corte ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al rimborso delle spese processuali, liquidate in euro 4.200,00 per ciascuna parte controricorrente, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

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