Condominio

È stalking usare un bene con fini persecutori

di Luana Tagliolini

Possono integrare il reato di stalking i comportamenti persecutori posti in essere nei confronti dei vicini. Lo ha precisato la Corte di cassazione,V sezione penale (sentenza 20473/2018) che si è pronunciata su un provvedimento della Corte d’Appello che aveva assolto l’imputato da reato di atti persecutori per condotte reiterate di minaccia e molestia dei vicini di casa.

L’imputato aveva assunto una serie di condotte di disturbo (aveva collegato al telefono della sua abitazione una campana elettrica esterna che attivava ogni mattina un allarme, teneva il motore del camion accesso anche per ore sotto le finestre dei vicini, custodiva asini in un adiacente letamaio a pochi metri dalle abitazioni, lanciava, nei giardini dei vicini, sassi e mozziconi di sigaro, aveva posizionato una latrina mobile sul confine) ma la Corte d’appello aveva giustificato queste condotte con motivazioni strettamente connesse alle esigenze lavorative (anche se nella sua abitazione l’imputato non svolgeva alcuna attività lavorativa) o all’inosservanza di norme civilistiche (e non penali) che regolano il diritto di proprietà. Per la Corte di merito non era ravvisabile la «finalità persecutoria nelle singole azioni denunciate dalle parti civili, bensì esplicazione del diritto di proprietà e del diritto di utilizzo del bene secondo le proprie esigenze e necessità, utilizzo che, comunque, deve sottostare a rigide regole civilistiche per non compromettere e sacrificare le ragioni altrui ma non per questo, in caso di inosservanza di dette regole, rende dolosi gli atti posti in essere né conferisce ad essi connotazione e carattere penale».

Per la Corte di cassazione, invece, l’aver ritenuto “non persecutorie” le finalità dei comportamenti dell’imputato vuol dire che la Corte di Appello ha effettuato una «erronea sovrapposizione concettuale tra la nozione di dolo e quella di mero movente dell’azione, la causa psichica della condotta umana, lo stimolo che ha indotto l’autore ad agire, facendo scattare la volontà». Quindi, conclude la Cassazione, a prescindere dalla valutazione dell’effettiva esistenza di un movente connesso a esigenze lavorative o all’esercizio del diritto di proprietà, è pacifico che il movente dell’azione - pur potendo contribuire all’accertamento del dolo - non coincide con la coscienza e volontà del fatto, della quale può, invece, rappresentare il presupposto. Proprio quest’ultima indagine non era stata adeguatamente effettuata dalla Corte di merito, perciò la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato la sentenza con rinvio.

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