Condominio

La veranda abusiva non è una pertinenza

di Donato Palombella


Realizzare una veranda è forse l'abuso più frequente (e il più amato) dagli italiani. Chi non ha mai pensato di chiudere il balcone, ricavare uno "spazio aggiuntivo" o un piccolo ripostiglio, scagli la prima pietra. Sta di fatto che realizzare l'agognata veranda non è problema da poco, bisogna barcamenarsi tra le solite mille leggi e leggine che dicono tutto e il contrario di tutto. Il Consiglio di Stato interviene sulla materia e, interpretando il "regolamento tipo" introdotto dalla Riforma Madia, fa il punto della questione.

Il Comune ordina la demolizione
I proprietari di un appartamento impugnano la determinazione dirigenziale che ingiunge loro la demolizione di «una veranda con struttura in alluminio e vetri con grigliato ligneo esterno di metri 1,50 X 4,00 circa adibita a lavanderia», nonché di «una veranda con infissi in alluminio, priva di vetri di mt. 1,00X2,00 circa adibito a ripostiglio», entrambe realizzate in assenza di titolo abilitativo dei lavori. Il TAR respinge il ricorso e la questione viene sottoposta al vaglio della sesta sezione del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 1893 del 26 marzo 2018, conferma il verdetto di primo grado fornendo degli utili chiarimenti.

La tesi dei proprietari: l'abuso risale agli anni '70
Con un primo motivo, i proprietari rilevano che il Comune non avrebbe considerato che le opere contestate erano di minima consistenza. I manufatti asseritamente abusivi, inoltre, erano stati realizzati negli anni settanta dai precedenti proprietari dell'appartamento, mentre gli attuali proprietari, destinatari del provvedimento sanzionatorio, si erano limitati ad eseguire, al momento dell'acquisto (nel 1988) delle semplici opere di manutenzione straordinaria. Il trascorrere del tempo, poi, avrebbe ingenerato, a loro dire, il convincimento che le opere erano del tutto legittime.

La risposta del giudice amministrativo
Il giudice amministrativo ritiene la questione infondata. Tale convincimento sarebbe basato su una sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 9/2017). L'inerzia dell'amministrazione nell'esercizio del potere repressivo dell'abuso, spiega il Consiglio di Stato, non è idonea a sanare l'illecito edilizio e non può radicare un "legittimo affidamento" in capo al proprietario. Il giudice d'appello sottolinea che «non è … concepibile l'idea ... di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo...». Sottolinea, al riguardo, che «il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento...». La circostanza che l'attuale proprietario dell'immobile non sia responsabile dell'abuso appare un elemento irrilevante.

La tesi dei proprietari: si tratterebbe di pertinenze
Secondo i proprietari, le opere contestate, non rientrerebbero nella categoria della ristrutturazione edilizia (art. 33 del Dpr 380 /2001); trattandosi di manufatti di consistenza risibile, (6 mq e 3 mq su un terrazzo della superficie complessiva di 155 mq) e di volumetria inferiore al 20% di quella complessiva dell'appartamento, dovrebbero essere considerati come pertinenze. Come tali, la loro realizzazione non avrebbe richiesto il previo ottenimento del permesso costruire, bensì la presentazione di una "semplice" DIA. A cascata, la mancata presentazione della DIA avrebbe dovuto comportare solo l'applicazione di una sanzione pecuniaria e non la demolizione del manufatto asseritamente abusivo.

Il parere del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato parte dalla qualificazione delle opere. La veranda sul balcone di un appartamento, dal punto di vista sostanziale, consiste nella realizzazione, con strutture fisse, di un manufatto capace di determinare una variazione planovolumetrica e architettonica dell'immobile. Di conseguenza, il manufatto deve essere inquadrato all'interno della ristrutturazione edilizia e, come tale, la sua realizzazione richiede il preventivo rilascio di permesso di costruire. Sotto questo profilo, la natura dei materiali utilizzati (nel caso in esame pannelli in alluminio), le ridotte dimensioni, la circostanza che le opere sarebbero state realizzate dai precedenti proprietari sarebbero tutte circostanze irrilevanti.
Perché la tesi dei proprietari non può essere accolta? La risposta negativa trova il proprio fondamento nell'art. 10, comma l, lett. c), del Dpr 380/2001, che disciplina le opere di ristrutturazione. Secondo la norma, rientrano in tale contesto gli interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (ristrutturazione edilizia). Tali opere rientrerebbero nella c.d. ristrutturazione pesante, la cui realizzazione richiede il preventivo ottenimento del permesso di costruire. Solo in via residuale, sottolinea il giudice d'appello, la SCIA potrebbe essere richiesta per gli interventi definiti di "ristrutturazione leggera" (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell'edificio preesistente).

La "veranda" secondo la Riforma Madia
Il giudice d'appello, con la sentenza in commento, effettua un preciso richiamo alla Riforma Madia. Con l'Intesa tra Governo, Regioni e Comuni del 20 ottobre 2016, è stato istituito il cosiddetto regolamento edilizio-tipo (ex art. 4, comma 1-sexies, Dpr 380/2001). Tale "regolamento" (nell'Allegato A), definisce la veranda come il «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
Di conseguenza, secondo il Consiglio di Stato, la veranda realizzata sul balcone o sul terrazzo non può essere considerata come una "pertinenza" in senso urbanistico. Si tratterebbe, infatti, di un nuovo locale autonomamente utilizzabile, che si aggrega ad un preesistente organismo edilizio, trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie. Il regolamento unico, quindi, taglierebbe la testa al toro togliendo ogni possibile dubbio sulla necessità del preventivo ottenimento del titolo abilitativo dei lavori.

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