Condominio

Citare in causa il condominio senza prove serie è una «lite temeraria»

di Selene Pascasi

Rischia la condanna per lite temeraria chi citi in causa il condominio senza sufficienti prove alla mano o, comunque, senza spiegare dettagliatamente le ragioni della propria pretesa. A ricordarlo, è la Corte di Cassazione con ordinanza 2758/2018 (relatore Antonio Scarpa). La vicenda si apre con la decisione di un uomo di citare la cooperativa edilizia di cui era stato presidente per circa quindici anni, il Condominio costituito in seno alla società che, dopo le sue dimissioni, era subentrato nell'amministrazione nonché l'amministratore di riferimento. La richiesta – presumibilmente legata al conflitto insorto con il nuovo consiglio di amministrazione – era di ottenere la declaratoria di nullità delle decisioni assembleari inerenti un bilancio consuntivo annuale e di altre delibere riferibili alle controparti. Domanda bocciata sia Tribunale che dalla Corte d'appello la quale, però, nel respingere gli assunti dell'ex presidente societario, lo condanna al pagamento di ben duemila euro a titolo di responsabilità processuale aggravata per colpa grave. Questi, infatti – spiega il collegio del gravame – non aveva individuato e precisato le proprie critiche con riguardo alle singole assemblee e deliberazioni contestate, né aveva dedotto alcun rilievo circa l'infondatezza delle eccezioni di prescrizione e decadenza sollevate dal Condominio. Egli, poi, non aveva neanche riferito se gli elementi indicati nei verbali assembleari (date, presenze…) fossero materialmente o ideologicamente falsi, limitandosi, nell'impugnare la sentenza, a riproporre, in maniera confusa e generica, questioni già decise in altri procedimenti. Il caso, così, arriva in Cassazione ma la colpevolezza dell'uomo viene cristallizzata. L'atto introduttivo del ricorso – scrive la Suprema Corte – era pressoché identico a quello “adoperato” per avviare i giudizi di merito e non conteneva, neppure sommariamente, le motivazioni della sentenza impugnata di cui si riportava solo il dispositivo. E nessun cenno veniva fatto alle difese svolte dalle controparti nelle pregresse fasi di causa. A difettare, quindi, il requisito imposto dall'articolo 366 del Codice di procedura civile che esige un'esposizione chiara ed esauriente della questione, da cui emergano le reciproche pretese delle parti, i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuno in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda e le argomentazioni essenziali su cui si fonda la decisione impugnata e in base alle quali si chiede alla Cassazione – nei limiti del giudizio di legittimità – una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta in sede di merito. Era corretto, perciò, il ragionamento all'esito del quale la Corte d'appello aveva condannato il ricorrente per responsabilità processuale aggravata (art. 96 del Codice di procedura civile) con riferimento alla «colpa consistente nell'aver dedotto in lite questioni di invalidità delle delibere assembleari già oggetto di precedenti giudizi, ovvero precluse da decadenze e prescrizioni, o ancora nell'aver allegato imprecisate falsità documentali, e nell'aver avanzato in appello motivi generici». Ad ogni modo, a prescindere da tali rilievi puramente fattuali, certamente idonei a provare la temerarietà della lite, andava annotato come ai fini di una tal condanna al risarcimento dei danni, il riscontro dei requisiti costituiti dall'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, o in difetto della normale prudenza, implichi un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità (Cassazione, 19298/2016). Ecco che gli ermellini – stante la colpa grave dell'appellante, responsabile di aver agito per la cassazione della sentenza di appello senza adoperare la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'assoluta infondatezza della propria posizione – lo hanno condannato, respingendone le doglianze, a rifondere i danni in favore delle parti chiamate “inutilmente” in causa.

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