Condominio

Per usucapire un immobile occupato da altri occorre provare l’«interversione del possesso»

di Edoardo Valentino

Un soggetto, proprietario di una abitazione in un condominio, si era accordato per vendere detto bene ad un potenziale compratore.
A tal fine le parti avevano concluso un accordo in ragione del quale l'aspirante compratore si era stabilito con la sua convivente nell'abitazione in attesa della stipula del definitivo.
Nonostante le parti non avessero sottoscritto un formale contratto, poi, il compratore aveva provveduto a versare all'acquirente una parte della somma pattuita.
Il contratto definitivo non era mai stato stipulato e – nelle more – l'aspirante compratore era deceduto.
Il proprietario, quindi, aveva domandato alla convivente la liberazione dell'immobile ma questa aveva opposto che, avendo posseduto l'immobile per un periodo superiore a venti anni, era intervenuta l'usucapione e quindi la casa era divenuta di sua proprietà.
I primi due gradi di giudizio avevano accolto la tesi della occupante.
In particolare il ragionamento giuridico dei giudici di merito era stato che stante il fatto che l'accordo era intercorso tra il proprietario e il de cuius, la convivente aveva occupato l'immobile non a titolo di detenzione in attesa della stipula del contratto di vendita definitivo, ma a titolo di possesso di fatto, condizione valida per maturare l'usucapione.
Il proprietario, vista la duplice soccombenza, si era visto costretto a ricorrere in Cassazione.
Con la sentenza numero 24479 del 17 Ottobre 2017 la Seconda Sezione della Corte di Cassazione aveva accolto il ricorso depositato.
In particolare secondo la Suprema Corte, i giudici di Appello avevano errato nelle loro valutazioni applicando principi di diritto non conferenti con il quadro normativo e la giurisprudenza.
Affermava la Cassazione come la sentenza di Appello avesse sganciato completamente la relazione tra la convivente e l'immobile e l'antecedente necessario dell'accordo tra il de cuius e il proprietario.
A prescindere dal fatto che la relazione del soggetto che aveva stipulato l'accordo con il proprietario potesse essere definita come possesso, quindi, quella della convivente era certamente una detenzione in quanto “la convivenza determina sulla casa di abitazione ove si svolge il programma di vita in comune, un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, ma non incide, salvo diversa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull'immobile”.
Il presupposto dell'usucapione, ai sensi degli articoli 1158 e seguenti del Codice Civile, è quello del possesso prolungato nel tempo e – conseguentemente – se l'attività posta in essere dalla convivente non era possesso, ma detenzione, allora l'usucapione non sarebbe mai maturata.
Al fine di ottenere l'usucapione del bene, infatti, la convivente avrebbe dovuto fornire prova di avere mutato la propria detenzione in possesso nei modi previsti dall'articolo 1141 del Codice Civile, ma così non è stato.
In considerazione di quanto sopra riportato la Cassazione, rilevando la fallacia del ragionamento giuridico della Corte d'Appello, accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava al giudice di merito per un altro giudizio.

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