Condominio

Condanna per minaccia al condòmino che per il parcheggio brandisce una pistola di plastica

(Fotolia)

di Enrico Bronzo

Un imputato si è visto condannare per un reato diverso da quello per cui era stato rinviato a giudizio. Nel dettaglio all’imputato era stata contestata la violenza privata mentre poi la condanna è arrivata per minaccia aggravata.

Questo già in primo grado, sentenza confermata dalla Corte di appello di Napoli e confermata ulteriormente ieri dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 2532 del 2017.

Il ricorrente, soccombente come detto, dichiara di sapere che la legge consente di condannare per un fatto anche se diversamente qualificato ma non per un altro fatto, pur contenuto negli atti.

Il passaggio da violenza a minaccia - scrive la Cassazione - è avvenuto perché «in tema di reati contro la persona, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave, ex art. 612, comma 2, cod. pen. rileva l’entità del turbamento psichico che l’atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo; pertanto, non è necessario che la minaccia sia circostanziata, potendo benissimo, ancorché pronunciata in modo generico, produrre un turbamento psichico, avuto riguardo alla personalità dei soggetti (attivo e passivo) del reato. (Sez. 5, n. 44382 ndel 29/5/2015, MIrabella, Rv. 26605501).

La Cassazione ha anche trovato il modo - in risposta al primo dei quattro motivi del ricorso - di riaffermare il principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza la quale esige che nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza (sez. 2, n. 18729 del 14/04/2016, Russo e altro, Rv. 26675801); la violazione di tale principio si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015 - dep. 2016, Addio e altri, Rv. 26594601).

Il principio richiamato dalla Cassazione dice che «In tema di correlazione tra accusa e sentenza, il rispetto della regola del contraddittorio - che deve essere assicurato all’imputato, anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all’art. 111, comma secondo, Cost., integrato dell’art. 6 Convenzione europea, come interpretato dalla Corte EDU - impone esclusivamente che detta diversa qualificazione giuridica non avvenga “a sorpresa” e cioè nei confronti dell’imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte a un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali rispetto all’originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo inaspettato.

Ne consegue che non sussiste la violazione dell’articolo 521 del codice di procedura penale qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l’imputato e il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell'imputato, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione (nella specie proposta avverso la sentenza di primo grado contenente  la diversa qualificazione giuridica del fatto (Sez. 5%, n. 7984 del 24/09/2012 - dep. 2013, Jovanovic e altro, Rv. 25464901).

Per la cronaca la condanna è stata a quattro mesi di reclusione e mille euro di risarcimento.

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