Condominio

I poteri dell'amministratore nell’impugnazione delle delibere

di Alessandro Gallucci

In tema di impugnazione delle delibere assembleari, l'amministratore di condominio può resistere in giudizio ed opporsi alle decisioni avverse alla compagine senza il necessario consenso dell'assemblea, poiché l'esecuzione e la difesa delle delibere assembleari rientrano tra le sue attribuzioni.
L'amministratore di condominio che propone ricorso per Cassazione avverso una sentenza sfavorevole nell'ambito di un giudizio riguardante la validità di una deliberazione assembleari deve farlo facendosi autorizzare dall'assemblea oppure ottenendo la ratifica del suo operato.
Queste due affermazioni rappresentano la sintesi di altrettante decisioni rese dalla Suprema Corte di Cassazione a distanza di poco tempo l'una dall'altra. La prima il 23 aprile 2015 con la sentenza n. 8309, la seconda con un'ordinanza, la n. 9661, del successivo 12 maggio. La questione riguarda la rappresentanza processuale dell'amministratore di condominio; in gergo tecnico si parla di legittimazione attiva e passiva, ossia della possibilità per lo stesso di stare in giudizio e di poterlo fare con o senza l'autorizzazione dell'assemblea. La materia è tutt'altro che pacifica e sovente, in passato, specie per quanto concerne la legittimazione passiva, ossia la legittimazione a resistere alle altrui domande, s'è assistito ad un vero e proprio contrasto giurisprudenziale sui limiti dei poteri dell'amministratore rispetto a queste cause condominiali. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, correva l'anno 2010, con due sentenze gemelle (nn. 18331-2), risolsero la questione pressappoco in questo modo: al di fuori delle ipotesi di controversie su materie rientranti nell'ambito delle sue attribuzioni, ossia quelle indicate dall'art. 1130 c.c. e da altre disposizioni di legge, l'amministratore può agire o resistere in giudizio (e quindi ad esempio proporre appelli o ricorso per Cassazione) solamente con l'autorizzazione assembleare o, al massimo, con una successiva deliberazione di ratifica. S'è trattato d'un intervento che non è andato esente da critiche perché, nei fatti, ha creato una procedura non espressamente prevista dalla legge.
La soluzione adottata dalle Sezioni Unite, tuttavia, non pare aver posto fine ai contrasti. Il problema, evidentemente, è tracciare un solco chiaro e preciso tra materie rispetto alle quali l'amministratore è autonomamente legittimato a far valere e tutelare gli interessi del condominio e questioni per le quali deve trarre tale legittimazione da una decisione dell'assemblea. Ancor prima dell'intervento delle succitate sentenze era pacifico, per la giurisprudenza, che l'amministratore potesse resistere autonomamente nei giudizi d'impugnazione delle delibere assembleari e autonomamente proporre impugnazione contro le sentenze sfavorevoli. Concetto ribadito nella sentenza n. 8309 ed avversato dall'ordinanza n. 9661. Né si può pensare che le norme dettate in materia di partecipazione del condominio al procedimento di mediazione – regole che assegnano un ruolo preminente all'assemblea, con l'amministratore ridimensionato a mero nuncius dell'assise durante tutto il procedimento (art. 71-quater disp. att. c.c.) abbiano modificato la sfera di competenza dell'amministratore. L'art. 1131 c.c., infatti, è uscito sostanzialmente invariato dalle modifiche apportate dalla legge di riforma del condominio.
Come agire, quindi, se c'è una sentenza di accoglimento dell'impugnazione di una delibera? L'orientamento che vede in queste materie una maggiore autonomia dell'amministratore sembra essere quello più convincente rispetto al complesso normativo vigente, non foss'altro perché per l'esecuzione delle delibere (art. 1130 n. 1 c.c.) l'amministratore è tenuto a fare tutto quanto a ciò necessario (art. 1709 c.c.) e quindi anche la loro difesa per via giudiziale.

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