Condominio

Nella compravendita non si può escludere una parte comune

di Luigi Salciarini

Alle parti comuni non si rinuncia. Nella disciplina condominiale si riscontrano alcune problematiche che, allo stesso modo di un fiume carsico, emergono all'improvviso alla superficie, tornando ad impegnare il lavoro della Suprema Corte con cadenza quasi periodica. Una di queste è sicuramente quella dell'ammissibilità della clausola prevista in un contratto di vendita (dedicata a un'unità immobiliare facente parte del condominio) che escluda dal trasferimento a favore dell'acquirente (futuro condòmino) la comproprietà su una o più parti comuni, oltretutto con la conseguenza che la quota millesimale su tale “parte” rimane in capo al venditore. Per fare un esempio pratico, il caso concreto può essere quello dell'esclusione della comproprietà su di un'area adiacente al fabbricato oppure su un locale comune (sui quali “beni”, l'acquirente non avrà, se detta esclusione è valida, alcun diritto di comproprietà e, quindi, di utilizzazione). Naturalmente spesso la clausola è inserita per escludere il neo condòmino dai vantaggi futuri che quest’area potrà apportare, come nuove costruzioni o vendita della stessa.
Sul punto, va registrata, da ultima, una pronuncia del 2015 della Corte di Cassazione (la n. 1680) per la quale tale esclusione deve ritenersi nulla, poiché configura la rinuncia del condòmino alle parti comuni, vietata dall'articolo 1118 del Codice civile (conformi le sentenze di Cassazione n. 3309/1977 e n. 6036/1995). Tale orientamento, però, non può dirsi pacifico, in quanto secondo un'altra impostazione della stessa Corte (anch'essa abbastanza recente: sentenza 22361/2011) è invece ben possibile, in sede di cessione, escludere l'acquirente dalla comproprietà di quelle “cose” che, seppur comuni, non sono legate all'edificio da un vincolo di necessità (si pensi alle fondazioni) ma da mera relazione spaziale (per un'area circostante), in quanto costituiscono beni ontologicamente diversi, suscettibili di godimento fine a se stesso che si attua in modo indipendente da quello delle unità abitative (nello stesso senso le sentenze di Cassazione n. 4931/1993).
Va da se che in questo contesto così contraddittorio appare quasi impossibile individuare una soluzione operativa definitiva. Tuttavia, c'è un dato che non può essere ignorato, e cioè che a prescindere dal “legame” che intercorre tra le specifiche “cose comuni” e l'edificio, ammettere la separazione tra titolarità della quota millesimale e la proprietà delle porzioni esclusive, vuol dire inevitabilmente introdurre una tipologia del tutto particolare di “condòmino” che appare incompatibile sia con la normativa condominiale sia con la precipua “struttura” della fattispecie. Forse è meglio, quindi, non avventurarsi nella stipula di clausole del genere, che probabilmente, come ben individua l'ultima sentenza della Corte, sono invalide per violazione dell'articolo 1118 del Codice civile.

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