Gestione Affitti

Locazioni commerciali e Covid, quando la solidarietà è solo a senso unico: il caso Venezia

Ad un locatore, come disposto precedentemente a Roma, è stata imposta dal giudice una riduzione del canone, penalizzandolo

di Luca Capodiferro (Coordinatore nazionale Centro studi giuridici Confabitare)

In un periodo storico complesso e difficile per tutti, la magistratura italiana, volente o nolente, si trova a dover colmare alcuni vuoti legislativi che la politica non ha saputo o voluto gestire. Uno dei comparti sui quali più ha inciso e colpito l'emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 è sicuramente quello immobiliare, sotto tutti i profili e, in questi mesi, con particolare riguardo ai contratti di locazione ad uso commerciale. Il lockdown di marzo prima, la crisi tutt'ora in essere e che permarrà per lungo tempo e il nuovo lockdown, anche se parziale, poi, hanno colpito duramente sia le attività chiuse dai vari Dpcm, sia quelle che, direttamente o indirettamente, con le stesse si interfacciano. L'inevitabile rallentamento dell'economia ha fatto e farà il resto. In un tale contesto, come detto, si sono inserite le sentenze «riempitive» dei tribunali che, se magari perfettamente logiche nel singolo caso concreto trattato, possono suscitare molta apprensione e molti dubbi nel caso dovessero diventare precedenti d'ordine generale.

Il caso
Con un provvedimento del 30 settembre 2020 il Tribunale di Venezia ha ritenuto che la notifica di uno sfratto in piena emergenza da Covid-19 si pone in contrasto con il principio – sancito dall'articolo 2 della Costituzione – di solidarietà fra le parti contrattuali. Ora, indubbiamente i l caso preso in esame dai giudici veneziani era particolare, trattandosi di un contratto di tipo rent to buy e non di un normale contratto stipulato ai sensi dell'articolo 27 della legge 392/78, così come magari vi erano specifiche ragioni per indurre il giudice a decidere in quel preciso modo, ma astrattamente sono le motivazioni giuridiche quelle che ci interessano.

Le motivazioni
In pratica i giudici hanno ritenuto che la crisi, impedendo a vario titolo al conduttore di pagare regolarmente il canone (in questo caso misto, affitto e acconto acquisto), abbia configurato una significativa impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione a lui non imputabile (particolare non contestabile). Impossibilità che consente al conduttore di poter scegliere fra proporre al locatore la riduzione del canone in origine pattuito ovvero esercitare il recesso dal contratto. Il Tribunale, nel caso in oggetto, ha sostanzialmente ritenuto che le parti «dovessero» trovare un accordo modificativo – in senso riduttivo – del canone originariamente pattuito in quanto, diversamente, lo sfratto intimato in piena pandemia avrebbe contrastato con i doveri solidaristici dell'articolo 2 e richiamando, altresì, le linee guida espresse nella Relazione tematica numero 56 della Cassazione a supporto della decisione presa.

Non esistendo, però, nel nostro ordinamento un vero e proprio obbligo generale a negoziare la riduzione del canone, i giudici, ritenendo che i vari provvedimenti emergenziali emanati con Dpcm abbiano sostanzialmente imposto dei limiti al godimento dei beni, hanno ritenuto corretto comprimere il diritto di proprietà, sancito dall'articolo 42 della Costituzione, imponendo una revisione del contratto che, da un lato tuteli il conduttore consentendogli di pagare un canone inferiore a quello pattuito, dall'altro eviti quando possibile la risoluzione, così tutelando un minimo il diritto del locatore alla remunerazione del bene concesso in locazione.

La solidarietà a senso unico
La linea adottata dai giudici veneziani sembra ricalcare l'opinione di altri magistrati che, a vario titolo, hanno sostenuto che - in situazioni come quella attuale - si configuri una sorta di «doverosa equa ripartizione del rischio» che nasce, appunto, dal richiamato dovere di solidarietà indotto da una pandemia che non colpisce tutti allo stesso modo.Principio astrattamente comprensibile ma, in linea generale, assolutamente inaccettabile. Intanto il rischio d'impresa appartiene, appunto, all'imprenditore, nel nostro caso il conduttore il quale, se le cose vanno bene, ne trae tutto il profitto possibile. Profitto che, si badi bene, non viene «condiviso» con il locatore (l'affitto non è altro che la giusta remunerazione per aver concesso in uso un bene) quando le cose vanno bene.

E allora perché mai il locatore dovrebbe condividere le conseguenze negative del rischio d'impresa?Se avesse voluto ciò, avrebbe fatto l'imprenditore non il locatore. Altrimenti si rischia un'abnorme nuova forma di «socializzazione delle perdite e di privatizzazione dei profitti» tanto cara a certa «vecchia» imprenditoria nostrana. Quella di rinegoziare il contratto (anche solo per salvarlo) deve essere una libera scelta di entrambe le parti, non può e non deve essere imposta per legge o per sentenza dai giudici (se non in casi molto limitati e specifici), altrimenti i concetti stesso di proprietà privata e di libertà negoziale rischiano di essere vanificati. E si sa che, una volta che si violano certi dogmi ritenuti inviolabili, le porte poi sono aperte a tutto.

Queste sentenze, magari comprensibili come detto nel caso specifico, diventano delicate e inaccettabili nel caso siano applicate come criterio generale d'interpretazione, perché altrimenti, ragionando in quel modo, si arriva all'assurdo che, per tutelare il diritto dell'uno, si sacrifica scientemente quello dell'altro. Un ragionamento che assomiglia molto a certe «voci» che vogliono che, in certi casi, i medici sceglierebbero – non potendo fare diversamente – se salvare un giovane o un anziano. Situazioni che, anche solo idealmente, non possono e non debbono trovare cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico, per nessun motivo.

I presupposti sbagliati
Uno dei problemi, in casi come quello di Venezia o della recente sentenza di Roma, è di pensare che il locatore sia di default, in quanto proprietario immobiliare, una persona particolarmente agiata. Così ragionando si rischia di pensare che a locare siano quasi sempre solo banche, assicurazioni, fondi, grandi proprietà. Peccato che, invece, si stima che almeno l'80% dei proprietari siano persone fisiche, spesso famiglie che hanno fatto grandi sacrifici per costruire una casa più grande e poterne mettere a reddito una parte, ovvero che l'hanno ereditata dai genitori (che sono poi quelli che hanno fatto i sacrifici).

Sarebbe interessante verificare quante famiglie oggi, vista la grave crisi, riescono a sopravvivere e a far studiare i figli proprio grazie all'affitto che, in molti casi, potrebbe essere rimasta l'unica loro entrata. Imporre una riduzione, spesso eccessiva (vedasi Roma), così come imporgli di dover rinunciare ai canoni non percepiti, equivale a dire loro che possono e debbono essere sacrificati a favore del conduttore, chiunque esso sia e qualsiasi cosa faccia in quell'immobile. Forse che queste persone non hanno anche loro diritto ad essere beneficiarie di un dovere solidaristico?

Non vorrei che si stesse facendo la solita politica demagogica di scaricare sui locatori il peso del welfare e le incapacità della politica, nascondendosi dietro il proverbiale «dito» dell'obbligo morale ed economico di solidarietà e di condivisione del rischio d'impesa. Forse sarebbe meglio smetterla di approcciare il mondo della proprietà immobiliare con gli occhiali dell'ideologia e della demagogia. Basta poco per poter dare alle parti i giusti strumenti per gestire e risolvere queste temporanee crisi di liquidità. Noi come Confabitare le abbiamo sottoposte al Governo. Vediamo se ci sarà la volontà di capire e di decidere o se, invece, si troverà più comodo aggrapparsi - per non decidere - ai ben noti preconcetti ideologici.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©