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Locazione, dopo la disdetta pesano i comportamenti delle parti

di Edoardo Valentino

A seguito della disdetta del contratto di locazione di un immobile locato ad uso commerciale, che valore hanno i comportamenti delle parti che danno una prosecuzione del contratto? A questo quesito si trovava a rispondere la Sesta sezione della Cassazione con la sentenza numero 17922 del 27 agosto 2020.

Il giudizio di merito iniziava con la moratoria di sfratto per morosità da parte del proprietario di un locale commerciale, notificata all'occupante inadempiente.Questi, tuttavia, non accettava tale versione dei fatti e si costituiva in giudizio al fine di contestarli.

In particolare, secondo il conduttore, già da prima dell'intimazione dello sfratto il contratto si era risolto ed egli aveva continuato ad occupare di fatto l'immobile commerciale, corrispondendo comunque una somma mensile a titolo di canone di occupazione senza titolo, in attesa della corresponsione da parte del proprietario dell'indennità di avviamento commerciale.

Il giudice di primo grado accoglieva la tesi del conduttore e condannava il locatore a versare la predetta indennità, compensando in parte la stessa con le somme ancora dovute dal conduttore a titolo di occupazione senza titolo.

La Corte d'Appello, adita dal proprietario, accoglieva l'appello e riformava la prima sentenza ritenendo risolto per morosità il contratto di locazione e tenuto il conduttore al pagamento dei canoni arretrati. La vicenda approdava quindi in Cassazione, a seguito di ricorso del conduttore soccombente il quale contestava la decisione d'appello nel seguente modo.

A detta del ricorrente, infatti, la Corte d'Appello avrebbe errato nel non riconoscere come il rapporto di locazione si era già sciolto a seguito di una disdetta unilaterale inviata dal locatore al conduttore. La Corte d'Appello avrebbe dovuto considerare detta lettera come prova della intervenuta risoluzione del contratto di locazione.

Il ricorrente, inoltre, censurava la presunta violazione dell'articolo 1597 del Codice Civile e dell'articolo 28 della legge 392 del 1978. La prima norma, difatti, specifica che «la locazione si ha per rinnovata se, scaduto il termine di essa, il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata o se, trattandosi di locazione a tempo indeterminato, non è stata comunicata la disdetta a norma dell'articolo precedente.La nuova locazione è regolata dalle stesse condizioni della precedente, ma la sua durata è quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato.Se è stata data licenza, il conduttore non può opporre la tacita rinnovazione, salvo che consti la volontà del locatore di rinnovare il contratto», mentre la seconda riporta al primo comma che «per le locazioni di immobili nei quali siano esercitate le attività indicate nei commi primo e secondo dell'articolo 27, il contratto si rinnova tacitamente di sei anni in sei anni e, per quelle di immobili adibiti ad attività alberghiere o all'esercizio di attività teatrali, di nove anni in nove anni; tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta da comunicarsi all'altra parte, a mezzo di lettera raccomandata, rispettivamente almeno 12 o 18 mesi prima della scadenza».

La Cassazione, con la sentenza in commento, rigettava integralmente il ricorso sopra tratteggiato. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la Corte d'Appello aveva correttamente valutato la scrittura privata con la quale le parti si erano accordate per concludere il contratto di locazione, ma le stesse avevano poi dato naturale prosecuzione al contratto stesso, prorogandolo attraverso una serie di comportamenti concludenti (pagamento del canone mensile, prosecuzione dell'attività commerciale del conduttore, registrazione del contratto).

Il giudice d'Appello aveva quindi valutato correttamente la prova, ritenendo la disdetta priva di effetti per i comportamenti concludenti delle parti, i quali inequivocabilmente portavano alla decisione di rinnovare il rapporto di locazione. Quanto alla presunta violazione delle norme sopra menzionate, la Cassazione rigettava tale doglianza.Secondo i giudici, infatti, la censura non trattava di violazione delle norme, bensì di errata interpretazione delle stesse alla luce dell'intervenuta cessazione del contratto.

La prospettazione del ricorrente, quindi, poneva l'accento sul solo documento, tralasciando i comportamenti concludenti sopra citati che – di per sé – erano stati in grado di confermare la volontà delle parti di rinnovare il rapporto contrattuale. La censura in questione, quindi, non presupponeva una valutazione sulla corretta interpretazione delle norme citate, ma una nuova valutazione sulle prove, che comportava un giudizio di merito del tutto inammissibile in un giudizio di Cassazione. Alla luce di tali valutazioni, quindi, la Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alla refusione delle spese di causa.

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