Gestione Affitti

Clausola penale nelle locazioni a rischio contenzioso con il Fisco

di Rosanna Acierno

Clausole e pattuizioni dei contratti di locazione finiscono nel mirino del Fisco. Diversi locatori e conduttori si sono visti recapitare da alcuni uffici territoriali delle Entrate avvisi di liquidazione dell’imposta di registro in relazione a una pattuzione considerata “autonoma” ai fini della tassazione. Si tratta, in particolare, della clausola secondo cui – in caso di inadempimento o tardivo pagamento del canone – il conduttore è tenuto a versare interessi moratori maggiorati rispetto a quelli derivanti dall’applicazione del tasso legale (pari dallo scorso 1° gennaio allo 0,8%). Con tali atti di liquidazione, l’Agenzia chiede – in solido alle parti contrattuali – il versamento dell’imposta di registro di 200 euro, oltre a interessi, sanzioni nella misura del 30% (dunque 60 euro) e spese di notifica (pari di solito a 17,50 euro).

Per quanto sia impossibile avere un monitoraggio completo, segnalazioni relative a tali tipologie di accertamento sono giunte da Milano, da altre province lombarde e dall’Italia centrale, Roma compresa.

Clausole penali e «connesse»

La pretesa del Fisco si fonda sul presupposto che la pattuizione indicata in precedenza rappresenti una «clausola penale» e, di conseguenza, sia soggetta alla disciplina prevista per gli atti sottoposti a condizione sospensiva (articolo 27 del Dpr 131/86), con conseguente assoggettamento all’imposta di registro prima in misura fissa (pari a 200 euro) e poi, qualora si verificasse l’inadempimento, in misura proporzionale pari al 3% (articolo 9 della Tariffa, parte I, allegata al Dpr 131/86), tenendo conto dell’imposta di 200 euro già versata.

Va ricordato, però, anche l’articolo 21 del Dpr 131 già citato, secondo cui in presenza di atti che contengono più disposizioni – come tipicamente è un contratto di locazione – si possono verificare due situazioni:

se le disposizioni non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ognuna di esse è soggetta a imposta come se fosse un atto distinto (comma 1);

altrimenti, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo all’imposizione più onerosa (comma 2).

È chiaro che per dirimere la controversia va chiarita la natura della clausola contestata da alcuni uffici delle Entrate. Se ricade nella prima ipotesi, è corretto liquidare i 200 euro “aggiuntivi” di imposta di registro; altrimenti, il prelievo del 2% sul contratto “esaurisce” i conti con il Fisco.

Va sottolineato, però, che la prassi pacificamente seguita dai locatori in casi come questo – avallata dalle sigle di categoria e generalmente non contestata dall’Agenzia – è quella di applicare la sola imposta del 2%, senza tassazione di pattuizioni autonome. Da qui lo stupore di chi si è visto recapitare un avviso di liquidazione.

Le posizioni dei giudici

La giurisprudenza non è univoca, anche se le pronunce più recenti sembrano propendere per una linea favorevole al contribuente.

Alcuni giudici, infatti, hanno affermato che una pattuizione come quella descritta integra una disposizione autonoma (Ctp Milano, sentenza 618/1/2019, e Ctp Pavia, 66/1/2018). Secondo tali pronunce, la previsione di una maggiorazione rispetto al tasso legale non deriverebbe automaticamente dall’obbligazione di pagare il canone, ma da una autonoma decisione del locatore di sanzionare il conduttore.

Altre sezioni delle medesime Commissioni provinciali, però, hanno affermato principi opposti (Ctp Milano, sentenza 894/10/2019, e 2769/3/2019; Ctp Pavia 224/3/2018). Secondo quest’altro filone, la clausola che prevede un interesse di mora maggiorato rispetto a quello legale, non costituisce disposizione autonoma né può considerarsi condizione sospensiva. Semplicemente, si tratta di una penalità che attiene la modalità di determinazione degli interessi applicabili in caso di ritardato pagamento del canone. E, in quanto tale, è interconnessa alle altre obbligazioni contrattuali.

La pretesa e le spese del giudizio

Al di là del merito, le contestazioni del Fisco in questo caso sono particolarmente insidiose. A fronte di una pretesa erariale complessivamente modesta – circa 280 euro per singolo contratto – il contribuente che decide di impugnare l’atto impositivo dovrà sostenere non solo le spese per il contributo unificato (nella misura di 30 euro) ma, verosimilmente, anche quelle per il compenso del professionista che lo rappresenterà in giudizio, a meno che non decida di difendersi da solo. Ragione per cui il contenzioso è spesso coltivato da società immobiliari o associazioni di categoria, come Confedilizia che – attraverso le sue sedi territoriali – si sta spendendo attivamente a favore della tesi pro contribuente. Mentre il “locatore-tipo” spesso si rassegna a pagare. Anche perché il rischio concreto – in caso di vittoria – è vedere compensate le spese del giudizio, alla luce della presenza di precedenti difformi.

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