Gestione Affitti

La «casa di riposo» non è un albergo, l’affitto dura sei anni

di Marco Panzarella e Matteo Rezzonico

L'attività di una casa di riposo per anziani non è assimilabile a quella alberghiera. È quanto affermato dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 11359 dell'8 novembre 2018, che ha pronunciato, tra l'altro, la risoluzione dei contratti di locazione ad uso residenziale, ad uso ufficio e ad uso deposito, (tutti inquadrati nell'ambito di una locazione ad uso diverso dall'abitativo di cui agli articoli 27 e seguenti della Legge 392/78).
Nella specie, la società convenuta (una cooperativa) si è costituita in giudizio sostenendo che i contratti di locazione relativi all'immobile - adibito a residenza “di signore anziane” che fruiscono di alloggio e assistenza personale – hanno la durata non di 6 anni (prevista per le attività commerciali, industriali e professionali) ma di 9 anni, stabilita dall'articolo 27 della legge 392/1978 (modificato dall'articolo 7 della legge 9/2007 e dal Dlgs 79/2011), “per l'esercizio di imprese assimilate alle attività alberghiere, ai sensi dell'articolo 1786 del Codice civile, tra le quali le case di cura”.
In particolare, riguardo alla durata del rapporto contrattuale, il Tribunale ha osservato che «...la giurisprudenza di legittimità ha escluso che le case di cura siano assimilabili agli alberghi, in ragione delle prestazioni sanitarie svolte, e comunque la modifica dell'articolo 27 della legge 392/1978, richiamata dalla resistente, è intervenuta in realtà nel 2011 (articolo 52 decreto legislativo n. 79/2011) e non trova applicazione per i contratti dedotti in lite, stipulati anteriormente, in quanto non ha effetti retroattivi». Inoltre, secondo il giudice, a differenza che nel caso esaminato, «...le case di riposo per anziani di regola offrono, oltre all'alloggio, una serie di servizi accessori di tipo alberghiero (dazione e cambio di biancheria da letto e da bagno, pulizia dei locali) nonché ricreativi, culturali e genericamente assistenziali, analogamente alle case di cura, ma si differenziano da queste ultime perché non forniscono anche, in generale, prestazioni di tipo sanitario».
Sul punto la Corte di Cassazione (pronuncia 16309/2018), ha escluso la assimilabilità dell'attività svolta dalle case di cura a quella alberghiera (fino al 2011, data di entrata in vigore del Codice del Turismo) proprio in ragione di tale peculiarità. La durata dei contratti di locazione dedotti in lite - aggiunge il Tribunale - correttamente è stata stabilita dalle parti in sei anni. I contratti devono perciò essere dichiarati risolti per intervenuta scadenza alle date indicate dalla locatrice.
Il Tribunale affronta, inoltre, la questione del diritto all'indennità di avviamento dell'inquilino, di cui all'articolo 34 della Legge 392/78, nel caso in cui l'immobile sia stato disdettato dal proprietario/locatore e l'attività comporti contatti diretti con il pubblico degli utenti e consumatori. In proposito, il Tribunale – fermo il diritto del conduttore all'indennità per la parte ad uso residenziale (pur nell'ambito di una locazione commerciale) - distingue tra porzione di immobile adibita ad uso ufficio, per la quale spetta l'indennità di avviamento, e porzione di immobile adibita ad uso deposito, per la quale l'indennità di avviamento non è dovuta. Si tenga presente che l'onere della prova circa il fatto che la porzione sia stata utilizzata per lo svolgimento di attività che comporti contatti con il pubblico, deve essere fornita dall'inquilino, come si evince dall'orientamento giurisprudenziale richiamato dalla sentenza milanese 11359 secondo cui «in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, l'immobile utilizzato come locale di esposizione intanto può determinare l'esistenza del diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento, in quanto il conduttore istante provi che possa essere considerato come luogo aperto alla frequentazione diretta della generalità dei consumatori e, dunque, da sé solo in grado di esercitare un richiamo su tale generalità, così divenendo un collettore di clientela ed un fattore locale di avviamento, senza che possa darsi rilievo al modo dell'organizzazione dell'attività del conduttore e alla circostanza che questi abbia creato un vincolo di accessorietà funzionale tra l'immobile adibito a deposito esposizione e l'immobile destinato alla vendita» (cfr. Cassazione 13083/2008).

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