Gestione Affitti

Affitto, è ammesso "trasferire" in capo al conduttore gli obblighi fiscali

di Paolo Duranti


Con la sent. n. 6882 dell'8 marzo 2019, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato la questione relativa all'ammissibilità o meno della clausola di un contratto di locazione che attribuisca al conduttore di farsi carico di ogni tassa, imposta e onere relativo ai beni locati ed al contratto, sollevando di conseguenza il locatore dai relativi obblighi. In altre parole, i giudici di legittimità erano stati chiamati a chiarire – anche alla luce dell'art. 53 della Costituzione - se, a parte le ipotesi in cui vi siano espressi divieti di traslazione da parte di specifiche norme tributarie, l'autonomia negoziale privata può incidere sulla individuazione del soggetto passivo dell'imposta, "neutralizzando" così gli effetti del principio di capacità contributiva.

La vicenda
Nella fattispecie sottoposta all'esame degli Ermellini, il contratto di locazione conteneva le seguenti clausole: «Il conduttore si farà carico di ogni tassa, imposta e onere relativo ai beni locati e al presente contratto; (…) il locatore sarà tenuto al pagamento delle tasse, imposte e oneri relativi al proprio reddito".

La decisione
Con la pronuncia in commento, la Cassazione ha stabilito il principio secondo cui nel contratto di locazione le parti possono inserire una clausola che ponga esclusivamente in capo al conduttore l'obbligo di versare le imposte relative all'immobile locato. Per i giudici di legittimità, in particolare, la citata clausola è da ritenersi ammessa avuto riguardo al contesto complessivo nel quale è intervenuto il contratto di locazione.
Nell'ambito della disciplina delle locazioni, infatti, il legislatore ha ritenuto di vincolare l'autonomia negoziale dei contraenti soltanto per quanto attinente alla durata del contratto, alla tutela dell'avviamento e alla prelazione, mentre l'ammontare del canone locativo è lasciato alla libera determinazione delle parti, che possono ben prevedere l'obbligazione di pagamento per oneri accessori.
A ciò si aggiunga che secondo un consolidato orientamento espresso dalla Suprema Corte, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento - rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate - dev'essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363 cod. civ.
Pertanto, «per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., sent. 28 agosto 2007, n. 828; sent. 22 dicembre 2005, n. 28479; sent. 16 giugno 2003, n. 9626)». La clausola contrattuale in esame, in conclusione, dev'essere interpretata "alla luce della ragione pratica dell'accordo e del contratto, in coerenza con gli interessi che le parti hanno cioè nel caso specificamente inteso tutelare mediante lo stipulato contratto" (a conclusioni analoghe giunse anche Cass., sent. 22 novembre 2016, n. 23701).

Rapporti con l'art. 79 delle legge sull'equo canone
Ai sensi dell'art. 79, comma 1, legge 392 del 27 luglio 1978 (cosiddetta legge sull'equo canone), è nulla ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto o ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dagli articoli precedenti ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge.
Con la sent. n. 6882/2019, i giudici di legittimità hanno altresì affermato che trattandosi di canone di locazione ab origine realmente pattuito, nel caso in esame non risulta integrata la violazione del divieto posto dalla norma da ultimo richiamata; tale conclusione è in linea con un precedente delle Sezioni Unite della medesima Corte, secondo cui è insanabilmente nullo il patto con il quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato, a prescindere dall'avvenuta registrazione (sent. 9 ottobre 2017, n. 23601).

Precedenti giurisprudenziali
In materia si segnala la sen. n. 6445/1985, con la quale le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano affermato che il patto traslativo d'imposta «è nullo per illiceità della causa contraria all'ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l'imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito»; questa ipotesi si verifica «nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, né recuperato dal sostituto medesimo, sicché effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente», e non anche nel caso in cui «l'imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l'obbligazione di cui si stipula l'accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, né mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente", ma "riguarda (…) una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il 'prezzo' della prestazione negoziale».
La pronuncia n. 6445/1985, inoltre, ha confermato la precedente sent. n. 5/1985 nella parte in cui ha riconosciuto natura "imperativa", come tale «preclusiva di patti negoziali che ne comportino l'esclusione», alla norma in tema di capacità contributiva; di conseguenza, il richiamato art. 53 della Carta Costituzionale «si pone come fonte immediata e imperativa la cui valutazione può comportare la sanzione della nullità delle manifestazioni di autonomia negoziale con esso confliggenti». Nell'occasione, infine, fu sottolineato che l'autonomia privata «non può alterare i connotati dei tributi diretti, strutturati in modo che "ad ogni capacità contributiva debba corrispondere inderogabilmente una riduzione del patrimonio del titolare della capacità contributiva stessa" (...)».
I principi delineati dalla sentenza n. 6445/1985, condivisi dalla dottrina maggioritaria, hanno successivamente ricevuto costante conferma presso la giurisprudenza di legittimità, formando così un principio consolidato (in tal senso si segnalano le seguenti pronunce della Cassazione: sent. 29 novembre 2004, n. 22369, relativamente al contratto di locazione di immobile ad uso diverso da abitazione contemplante il canone comprensivo anche degli oneri accessori; sent. 3 giugno 1991, n. 6232 e sent. 25 febbraio 2015, n. 3770, con riferimento al contratto di mutuo; sent. 25 marzo 1995, n. 3577 e sent. 18 novembre 2009, n. 24307, relativamente all'imposta sulla pubblicità; sent. 27 novembre 1999, n. 13261, in tema di intestazione fiduciaria di azioni).

Inapplicabilità dell'orientamento giurisprudenziale previgente
Se da un lato è innegabile che con tali pronunce i giudici di legittimità hanno escluso la possibilità per le parti di un contratto di locazione di derogare ai principi normativi, dall'altro – sottolinea la Cassazione con la pronuncia in commento – entrambe le sentenze del 1985 oggetto della clausola sono le imposte dirette gravanti sul locatore; nel caso in esame (sent. n. 6882/2019), invece, la clausola contrattuale si riferisce ai tributi gravanti sull'immobile e inerenti al contratto stipulato.

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