Gestione Affitti

Comodato con la «Pa», senza indicazioni di durata: valido anche se risale al 1920

di Valeria Sibilio

La Cassazione (prima sezione civile), nel trattare l'ordinanza 8571 del 2018 , ha comparato, con attenzione, le norme del vecchio Codice civile sul comodato con quelle attuali, rendendo esplicite le indicazioni alle pubbliche amministrazioni sulle modalità e le obbligazioni con le quali viene definito il contratto con il quale il comodante consegna al comodatario un bene mobile o immobile perché questi se ne possa servire per un tempo o per un uso determinato con l'obbligo poi di restituirlo. Un caso tutt'altro che infrequente, dato che sono numerosi gli affitti e i comodati gratuiti concessi in tempi assai remoti e diventi insostenibili. Vuoi per il valore ormai raggiunto dall'immobile e la necessità di metterlo a reddito, l'altro per le alterne vicende dei comodatari/inquilini, che nei decenni diventano complesse e a volte non giustificano più il trattamento di favore. Ma la Cassazione ha dato ragione al comodatario e torto alla pubblica amministrazione: il vecchio contratto del 1920 non prevedeva scadenze e quindi è ancora in vigore.
Il caso trae la propria origine dal ricorso notificato da una Pubblica Amministrazione contro la sentenza della Corte d'Appello che, in riforma della decisione di primo grado, aveva accolto l'opposizione, proposta da un ente morale di divulgazione culturale, al fine di riscuotere i canoni dovuti per l'utilizzazione dell'immobile di proprietà comunale, sede dell'ente, cui era stato concesso, in uso permanente ed irrevocabile, con atto per notaio del 27 dicembre 1920, con l'avvertenza che il rapporto si sarebbe risolto in caso di estinzione dell'ente o di cessazione della sua destinazione.
Il giudice d'appello aveva ritenuto, in considerazione della data di costituzione del rapporto, che esso fosse disciplinato, in assenza di disposizioni transitorie in materia di comodato che prevedano l'applicabilità delle norme del codice civile del 1942 ai contratti stipulati sotto il vigore del codice abrogato, dalle disposizioni di quest'ultimo e, circa la clausola concernente la cessazione del rapporto, aveva ritenuto che, non essendo la precarietà l'elemento essenziale caratterizzante il contratto tipico. Visti gli artt. 1103 del codice cessato e 1322 e 1323 di quello in vigore, l'incertezza del termine fissato per la riconsegna della cosa data in comodato, non urtava contro alcuna norma imperativa di legge, né privava di oggetto il contratto. Circa la facoltà del comodante di sciogliersi anzitempo dal rapporto, considerando gli artt. 1805 cod. civ. 1865 ed, in particolare, l'art. 1816, la volontà dell'ente comunale di riottenere la disponibilità del cespite non era idonea a comportare la cessazione del rapporto non essendo stato allegato alcun urgente sopravvenuto e impreveduto bisogno, tenuto conto che la richiesta era stata formulata allo scopo di conseguire un reddito dall'immobile.
Nel ricorso in Cassazione, la Pubblica Amministrazione, nel primo motivo, lamentava l'erroneità in diritto della decisione impugnata, la quale non avrebbe dovuto limitarsi ad affermare genericamente che la decisione di primo grado era radicalmente erronea. Motivo infondato in quanto il nuovo dettato dell'art. 342 cod. proc. civ., impone all'appellante di individuare, con la dovuta chiarezza, i temi decisionali da sottoporsi al vaglio del decidente d'appello. La Corte, nel rigettare l'eccezione di inammissibilità, non è venuta meno all'osservanza del predetto comando nomofilattico.
Nel secondo motivo di ricorso, la sentenza impugnata non avrebbe preso atto che la natura onerosa del rapporto non era stata fatta oggetto di contestazione dall'ente, per cui il decidente non avrebbe potuto ravvisare la sussistenza di un comodato e non avrebbe potuto conseguentemente accogliere l'opposizione a reclamare il corrispettivo del concesso godimento. Motivo anch'esso infondato, in quanto tale censura si fonda sulla decontestualizzazione del giudizio censurato dal resto della motivazione, intesa ad isolare dal ragionamento decisorio, l'autorità della cosa giudicata. Allorché il giudice d'appello ha parlato di valorizzazione dell'argomento compiuta dal primo giudice, tale l'affermazione si colloca alla fine di un percorso argomentativo, il cui cardine essenziale è costituito dalla qualificazione “preferibilmente” comodataria senza determinazione di tempo del rapporto in essere tra le parti ed, insieme, dalla cessazione del rapporto per effetto della revoca manifestata dal Comune con la nota del 17.7.1977, con la conseguenza che a far tempo da quella data l'ente culturale, continuando a detenere l'immobile, ne era divenuto occupante. Poiché l'ingiunzione fatta notificare dal Comune era intesa propriamente a determinare il tantundem dovuto dall'ente culturale per la protratta occupazione del bene, è in quella cornice che va rettamente inserita ed interpretata la mancata contestazione delle pretese esternate dal Comune, che non costituisce perciò l'attestazione di un fatto avente rilievo decisionale come preteso dal deducente, peraltro di non agevole coordinamento con la pregressa connotazione gratuita del rapporto discendente dalla natura preferibilmente comodaria ad esso attribuita dal Tribunale, ma il necessario sviluppo logico sotteso alla qualificazione del rapporto, di seguito al recesso del Comune. Non si ravvisa, perciò, alcuna violazione di un preteso giudicato da parte del giudice d'appello, in quanto distinguendo tra assorbimento proprio che consegue all'accoglimento della pretesa con riguardo ad una domanda, e assorbimento improprio che si determina quando la decisione sulla questione assorbente preclude l'esame delle altre, la declaratoria di assorbimento non comporta un'omissione di pronuncia quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita anche sulle questioni assorbite. La Corte d'Appello ha ricusato l'esame del terzo motivo di gravame sul presupposto che il pregresso rapporto di comodato, a cui aveva dato vita il rogito, era ancora in essere tra le parti, per cui non vi era ragione di interrogarsi sulla sua novazione in termini onerosi, questione che la riconosciuta natura comodataria del rapporto e, quindi, la naturale gratuità di esso, rendeva chiaramente assorbita.
Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente deduceva che il comodato si sarebbe dovuto intendere stipulato a titolo precario e, quindi, revocabile, in quanto, dalla disciplina del codice civile del 1942 - applicabile alla specie perché il rapporto pur sorto anteriormente ad esso, non può che essere regolato da tali disposizioni - le uniche figure note sono quelle del comodato con prefissione di termine e quella del comodato senza determinazione di durata. Da ciò l'errata conclusione, a cui sarebbe pervenuto il decidente, nel qualificare il contratto come soggetto a termine, quantunque per il particolare contenuto della clausola, in tema di durata figurante nel rogito di concessione, che non individuava una determinazione temporale, il comodato dovesse intendersi stipulato a titolo precario e, quindi, revocabile. Motivo, per gli ermellini, infondato. Il giudice distrettuale è giunto alla conclusione mosso dall'affermazione secondo cui il contratto stipulato tra il Comune e l'ente, è disciplinato, in assenza di disposizioni transitorie in materia di comodato, che prevedano l'applicabilità delle norme del codice civile del 1942 ai contratti stipulati sotto il vigore del codice abrogato, dalle disposizioni di quest'ultimo, vale a dire dagli artt. 1805 e segg. cod. civ. 1865, e su questo presupposto ha sciolto l'interrogativo in ordine alla legittimità o meno della detenzione del bene da parte dell'ente seguita alla revoca del Comune con la nota 17.7.1977 sostenendo, da un lato, che anche nel vigore di quelle norme la pattuita incertezza del termine fissato per la riconsegna della cosa data in comodato, non urta contro alcuna norma imperativa di legge, non priva di oggetto il contratto e non persegue alcun fine illecito, e, dall'altro, che quand'anche la pattuizione in questione si fosse ritenuta invalida e si fosse ricondotta la specie al tipo contrattuale di cui alle norme citate, e tra esse all'art. 1816, la volontà del Comune di riottenere la disponibilità del cespite non sarebbe idonea a comportare la cessazione del rapporto non essendo stato allegato alcun urgente sopravvenuto e impreveduto bisogno, atteso che la richiesta è stata formulata al mero scopo di conseguire un reddito dall'immobile. Il ragionamento decisorio dispiegato dal giudice d'appello fa leva, dunque, nella disciplina del comodato vigente sotto il codice civile del 1865. Non è corretto ritenere l'affermazione che gli effetti di esso e, dunque, anche la validità delle pattuizioni che vi sono contenute continuino ad essere regolati da quelle disposizioni in una sorta di ultrattività di esse che non si concilia con principio della successione delle leggi nel tempo ed altera, parallelamente, il funzionamento del principio di irrettroattività. La legge nuova non può essere applicata a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia alle conseguenze attuali e future di esso. Lo stesso principio comporta, invece, che questa possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi completamente dal collegamento con il fatto che li ha generati in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore. Ciò porta a rimuovere dal terreno ogni riflesso di diritto intertemporale e ad abbandonare lo scenario giuridico ipotizzato dal giudice d'appello, obbligando a spostare l'asse del discorso dal codice civile del 1865 al codice civile del 1942, individuando nella disciplina che questo detta del comodato la sedes materiae della specie in discorso.
Nella cornice predisposta dal legislatore del '42 si incontrano il comodato con prefissione di termine, per il quale l'art. 1803 cod. civ., sulla scia del prestito ad uso riconosciuto dall'art. 1805 cod. civ. 1865, stabilisce che la consegna della cosa «essenzialmente» gratuita avvenga «per un tempo o per un uso determinato», di modo che il comodatario sia obbligato alla sua restituzione «alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza, quando se ne è servito in conformità del contratto», e ciò, sempreché, non sopravvenga un urgente ed impreveduto bisogno del comodante che in tal caso «può esigerne la restituzione immediata» (art. 1809); ed il comodato senza determinazione di durata, estraneo, anche in considerazione dell'autonomia accordata alla figura del c.d. precario, alla disciplina del codice civile del 1865, ed ora invece regolato dall'art. 1810 cod. civ. in base al principio che «se non è stato convenuto un termine né questo risulta dall'uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede». Da questo assetto normativo si è tratta la convinzione che, mentre costituiscono elementi essenziali del comodato la realità, la unilateralità e la gratuità, non lo sarebbe viceversa la predeterminazione della durata con il connesso potere di restituzione, giacché per effetto di quanto previsto dall'art. 1810 cod. civ. il legislatore si è dato cura di ricomprendere nello schema del comodato tipico anche la fattispecie caratterizzata dalla mancata determinazione di una durata.
L'esigenza avvertita di evitare sconfinamenti in direzione degli atti atipici di liberalità, ha suggerito l'osservazione che l'apposizione di un termine espresso o tacito, in vista del quale l'obbligo di restituzione possa trovare modo di essere adempiuto, costituisce un requisito imprescindibile del modello negoziale messo a punto dal codice civile, posto che, diversamente, un godimento che si prolunga nel tempo senza l'indicazione di un termine finale si porrebbe, da un lato, in contrasto con i principi generali in tema di contratti di durata senza prefissione di un termine di scadenza e, dall'altro, con il carattere di gratuità del negozio che mal si concilia con un sacrificio illimitato del comodante. E questo termine, che non necessariamente deve sostanziarsi in un'indicazione temporale puntuale e che bene può essere desunto dall'uso cui la cosa è destinata, occorre che sia correlato ad un evento certo nel suo futuro verificarsi. L'obbligo di restituzione non può prescindere dalla fissazione di un termine, che, in quanto tale, deve per definizione essere certo nel suo futuro verificarsi. In conclusione non è ammissibile un comodato senza termine, tanto che, sebbene il termine finale possa essere determinato in funzione dell'uso cui la cosa è destinata, la circostanza che l'uso «non abbia in sé una durata predeterminata nel tempo» qualifica il rapporto come a tempo indeterminato. Rispetto all'ineluttabilità di questa conclusione, per gli ermellini, accanto ai due modelli tipici di comodato, è configurabile un tertium genus attraverso il quale il prestito d'uso può atteggiarsi e può rendersi, in grazia degli interessi perseguiti, meritevole di tutela da parte dell'ordinamento giuridico in quanto esplicazione dell'autonomia negoziale che esso riconosce ai privati a mente dell'art. 1322 cod. civ.
Si afferma, perciò, la connotazione di figura atipica, non riconducibile né al modello legale del comodato a termine (art. 1809 cod. civ.), né a quello del comodato senza limitazione di tempo (art. 1810 cod. civ.), del contratto di comodato immobiliare con il quale le parti hanno previsto che la restituzione del bene da parte del comodatario debba avvenire nel “caso che il comodante ne abbia necessità”. In tale ipotesi, infatti, il comodato è da intendere convenuto senza determinazione di tempo (salvo quello che “ex lege” può discendere dall'applicazione dell'art. 1811 cod. civ, e che un termine derivi in relazione all'uso pattuito), ma, ai sensi dell'art. 1322 cod. civ., con il patto che il potere di richiedere la restituzione possa esercitarsi solo in presenza di una necessità di utilizzazione dell'immobile che sia incompatibile con il protrarsi del godimento del comodatario e che deve essere prospettata nel negozio di recesso dal comodante e, in caso di contestazione, dimostrata», chiamato a pronunciarsi in merito alla qualificazione di un rapporto di comodato in cui era stato convenuto che la restituzione sarebbe avvenuta a richiesta del comodante “nel caso che ne abbia necessità”. In presenza di una simile clausola il comodato non è a termine, per la ragione che la verificazione della necessità che il comodante può addurre come motivo di rilascio è evento incertus an. Il comodato è, invece, senza determinazione di tempo (salvo quello che ex lege può discendere dall'applicazione dell'art. 1811, e salvo che un termine non risulti altrimenti in relazione all'uso pattuito), ma le parti hanno convenuto, ai sensi dell'art. 1322 c.c, che il potere di richiedere la restituzione possa esercitarsi solo in presenza di una necessità di utilizzazione dell'immobile che, evidentemente, sia incompatibile con il protrarsi del godimento, e che deve essere prospettata nel negozio di recesso dal comodante e dimostrata, in caso di contestazione».
L'accordo stipulato dal Comune e dall'ente esclude la possibilità per il comodante di ottenere la restituzione del bene condizionandola alla cessazione del suo utilizzo conforme alla pattuita destinazione o alla estinzione dell'ente comodatario, mentre l'accordo giunto all'osservazione della Corte di Cassazione consentiva al comodante di ottenere la restituzione della cosa comodata nel caso di suo urgente e impreveduto bisogno. Quello indicato nell'occasione da Cass. 6678/2008 per sottrarre la pattuizione al suo esame all'altrimenti ineludibile rigidità della contrapposizione tra comodato a termine e comodato senza predeterminazione di durata e alla conclusione, in qualche modo obbligata per il fatto che nessun termine di durata era stato nella specie convenuto, della risolubilità ad nutum del rapporto, rappresenta al contrario un approccio ricostruttivo che, di fronte alla specie del comodato senza prefissione di termine, pone al centro del proprio incedere non già la derogabilità del termine, ma la modulabilità in funzione di una valorizzazione della volontà delle parti del potere di restituzione della cosa che il comodante di regola esercita liberamente. La specialità del comodato di terzo genere non sta dunque nell'apprestare un particolare statuto giuridico agendo sul profilo temporale del rapporto, ma nel rendere negoziabile il potere di restituzione sottraendolo alla regola dell'esercizio discrezionale e facendo sì che il comodante possa farne uso solo al ricorrere delle condizioni convenute dalle parti. Il principio della libera recedibilità in tronco del rapporto cede di fronte alla diversa volontà negoziale delle parti che intendono regolare lo scioglimento di esso per iniziativa del comodant. E questo rende atipico il comodato, poiché il prestito d'uso che vi è convenuto, rifluisce naturalmente nell'alveo del comodato a cui si applica l'art. 1810 cod. civ., ma da esso si dissocia, in ciò manifestando la sua atipicità, poiché il potere di restituzione non è liberamente esercitabile dal comodante. Quando una pattuizione che vincola la risolubilità ad nutum del rapporto è da ritenersi meritevole di tutela, consente che le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico. La Corte ha ritenuto perseguire un interesse meritevole di tutela perfino la clausola che vincolava l'esercizio del potere di restituzione da parte del comodante nel caso ne abbia necessità.
Il quarto motivo di ricorso ha portato il ricorrente ad argomentare la contrarietà dell'impugnata decisione alla propria delibera consiliare n. 5625 del 1983, che, nel disciplinare il regime concessorio dei beni appartenenti al demanio comunale, ne prevede la naturale onerosità. Giustificando che l'ente possa occupare l'immobile senza corrispondere alcun canone, si ammetterebbe la possibilità che i beni comunali possano essere utilizzati in modo del tutto gratuito. Motivo, inammissibile poiché il vizio denunciabile alla stregua del pur menzionato art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. deve afferire ad una norma di legge e non ad una disposizione amministrativa quale è nella specie la deliberazione consiliare richiamata in epigrafe del motivo, è tuttavia totalmente infondato. Non si può non considerare che, essendo il rapporto sorto sulla base di una convenzione regolata da norme privatistiche, è la lex contractus e solo essa che ne detta la disciplina e vincola i contraenti all'osservanza dei patti e delle condizioni che vi sono stabiliti (art. 1372 cod. civ.). Inoltre, tale rapporto è diretto riflesso di una pregressa deliberazione consiliare adottata all'esito della seduta del Consiglio Comunale di Roma del 23 e 27 febbraio 1920 che già aveva accordato all'ente «l'uso permanente ed irrevocabile senza corrispettivo» dell'immobile, sicché la conseguente convenzione stipulata ai rogiti del notaio si limitava a recepire l'esatto tenore della citata deliberazione municipale, che si presta a costituire una ragionevole eccezione al principio della generale onerosità.
La Cassazione ha, perciò, respinto il ricorso, condannando la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in euro 3200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

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