Lavori & Tecnologie

Cambi d’uso riammessi in centro città

di Guido Inzaghi e Simone Pisani

Un tempestivo intervento legislativo ha riportato serenità nel settore immobiliare dopo lo scompiglio generato dalla sentenza della Corte di cassazione sui cambi di destinazione d’uso negli interventi di restauro e risanamento conservativo. Mediante la manovrina (legge 96/2017, di conversione del Dl 50/2017), il legislatore, modificando la definizione di «restauro e risanamento conservativo» contenuta nell’articolo 3, comma 1, lettera c), del Tu edilizia, ha infatti chiarito che le opere di restauro e risanamento conservativo consentono anche i cambi di destinazione d’uso a due condizioni:

il rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio;

la conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici.

Il rischio di blocco

Il Parlamento ha così rapidamente risposto ad una sentenza (numero 6873/2017), mediante la quale la Cassazione aveva, per contro, affermato che il mutamento di destinazione d’uso di un immobile attuato con opere edilizie, anche se di modesta entità, va sempre considerato come intervento pesante («ristrutturazione edilizia» in senso proprio), sottolineando «la imprescindibile necessità» di mantenere l’originaria destinazione d’uso, sia nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria, sia in seno alle opere qualificabili come “semplice”restauro e risanamento conservativo.

La pronuncia, resa su ricorso del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze in relazione ad un intervento nel centro storico della città stessa, aveva suscitato non poca preoccupazione, in quanto sradicava la consolidata prassi interpretativa e applicativa formatasi in relazione alle definizioni contenute nel Dpr 380/2001, secondo la quale - anche sulla base del testo previgente - gli interventi di risanamento conservativo ben avrebbero potuto comportare cambi d’uso purché compatibili con gli elementi caratterizzanti l’edificio.

Il principio espresso dalla Cassazione portava con sé effetti molto concreti:

il versamento del contributo di costruzione per una serie di interventi che, se riconducibili alla definizione di risanamento conservativo, non sarebbero invece stati onerosi;

la necessità del permesso di costruire (o della Scia alternativa), come titolo abilitativo per l’intervento;

in determinati casi avrebbe anche precluso all’origine la possibilità di attuare interventi di riqualificazione e rigenerazione su fabbricati nei centri storici, dove infatti non è infrequente che gli strumenti urbanistici vietino la ristrutturazione edilizia, specialmente se classificabile come “pesante”.

Il principio avrebbe dunque potuto paralizzare parte dei processi di rigenerazione urbana dei centri storici attualmente in corso. Diverse associazioni (tra cui l’Anci per i Comuni e l’Ance per i costruttori , oltre a diversi Ordini professionali), sono intervenute caldeggiando l’approvazione in Parlamento di una norma che ponesse fine alla criticità, che chiarisse ogni dubbio interpretativo e che, dunque, sancisse definitivamente la possibilità di procedere a cambi d’uso anche attraverso gli interventi di restauro e risanamento.

Il chiarimento

Con l’articolo 65-bis della manovrina, il legislatore, sostituendo la precedente dicitura dell’articolo 3 del Tu, ha chiarito che gli interventi di risanamento possono comportare anche «il mutamento delle destinazioni d’uso» compatibile con i richiamati elementi e con gli strumenti urbanistici.

Il superamento di questa impasse è prova del sostegno del legislatore alla valorizzazione e riuso del nostro obsoleto patrimonio immobiliare, processi che - come dimostrato anche da indagini di settore (come il “Primo rapporto sul recupero edilizio in Italia” di Scenari immobiliari realizzato con Paspartu Italy) - sono in grado di assicurare nuovo valore per le abitazioni, nonché sensibili benefici sul piano dell’efficienza energetica e della sicurezza.

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