Lavori & Tecnologie

Riflessi sul regolamento-tipo

di Guido Alberto Inzaghi e Simone Pisani

Alla luce della notevole incidenza delle norme in materia di distanze (articolo 9 del Dm 1444/1968) e, specificamente, della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti su qualunque intervento edilizio maggiore, la giurisprudenza viene costantemente chiamata a chiarire i rapporti tra la normativa e i regolamenti locali, senza dimenticare che dei princìpi fin qui affermati si dovrà tener conto nell’adeguamento al regolamento-tipo.

Un consolidato indirizzo attesta che non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del Dm 1444/1968: quest’ultimo è stato emanato su delega dell’articolo 41-quinquies della legge 1150/1942 e ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni non sono derogabili dagli strumenti urbanistici comunali.

Le norme in materia di distanze, dunque, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili e vincolano i Comuni in sede di formazione degli strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sentenza 3522/2016).

La diretta conseguenza di questo principio è che le previsioni regolamentari in contrasto con questi limiti sono illegittime e devono essere annullate o disapplicate, stante l’automatica sostituzione delle stesse con la previsione legale dettata dalla fonte sovraordinata.

Altri insegnamenti giurisprudenziali in tema di distanze tra pareti finestrate hanno inoltre chiarito che:

il dovere di rispettare le distanze sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (Consiglio di Stato, sentenza 856/2016);

ai fini dell’operatività della previsione è sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (Consiglio di Stato, sentenza 5557/2013);

la norma, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (Consiglio di Stato, sentenza 5759/2011);

il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, con esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice (Consiglio di Stato, sentenza 6489/2012).

L’articolo 2-bis del Dpr 380/2001 pareva aver introdotto uno snodo utile a consentire un po’ di flessibilità a questo rigido quadro. Ma la Consulta ha chiarito che, in realtà, la disposizione ha semplicemente inserito nel Tu edilizia i principi di vincolatività delle distanze legali stabiliti dal Dm 1444/1968 ed eventuali deroghe sono ammissibili, solo se «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».

I limiti in materia di distanze vanno dunque tenuti in considerazione anche per adeguare i regolamenti edilizi comunali allo schema di regolamento edilizio-tipo (come eventualmente integrato dalle Regioni), approvato con l’intesa di ottobre 2016.

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