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Chi viola le distanze tra edifici dovrà anche risarcire il danno

di Paolo Accoti

Violate le distanze legali tra costruzioni la condanna al risarcimento del danno è conseguenza inevitabile. Una volta dimostrata la violazione delle norme sulle distanze legali il risarcimento del danno, qualora richiesto, non necessita di alcuna specifica prova, in considerazione del fatto che al mancato rispetto delle distanze legali consegue la rifusione del danno subito che, in tali fattispecie, è da intendersi in se stesso.
Peraltro, qualora dovesse risultare oggettivamente difficile la precisa determinazione, in relazione alle concrete caratteristiche del fatto dannoso, il danno può essere liquidato equitativamente dal giudice.
Detto principio di diritto è stato di recente ribadito dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 17695, pubblicata in data 7 settembre 2016.
La vicenda giudiziaria vede contrapposti due condòmini, il primo proprietario di un appartamento posto al secondo piano dello stabile, il secondo, convenuto in giudizio, titolare dell'appartamento situato al piano sottostante del medesimo edificio.
Quest'ultimo ha ritenuto legittimo realizzare sul terrazzo di pertinenza del proprio appartamento una copertura che fungeva anche da isolamento della terrazza.
Il proprietario soprastante lo “trascinava” in giudizio, deducendo la violazione delle norme sulle distanze legali, in particolare l'inosservanza dell'art. 907 Cc (<<Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905. Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita. Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia di pertinenza del proprio appartamento>>), evidenziava altresì come l'opera realizzata consentiva la permanenza di rifiuti sulla stessa e, comunque, l'alterazione del decoro architettonico dello stabile.
Chiedeva, quindi, al tribunale di Palermo la rimozione della copertura della terrazza, nonché il risarcimento del danno subito.
Sull'opposizione del condomino convenuto, che insisteva per il rigetto della domanda, espletata l'attività istruttoria, con l'assunzione di testimoni e l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio che, il tribunale adito condannava il convenuto a rimuovere le opere di copertura ed a risarcire il danno cagionato, quantificato in euro 2.000,00.
La corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, negava il diritto al risarcimento del danno, sulla scorta del fatto che <<non risulta da alcun elemento di prova, neppure indiziario, che dalla realizzazione dell'opera sia derivato agli appellati alcun danno patrimoniale>>, confermava per il resto la sentenza gravata, con l'ordine di rimozione delle opere illecitamente realizzate, per violazione della normativa sulle distanze legali.
I proprietari della copertura da rimuovere, non ci stavano, e ricorrevano alla Suprema Corte per violazione, tra l'altro, degli artt. 907 e 1120 Cc.
Resisteva con controricorso la parte vittoriosa nei due gradi di merito, la quale proponeva anche ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, ritenendo meritevole di censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato il diritto al risarcimento del danno, in considerazione del fatto che, il danno conseguente alla violazione della servitù di veduta, deve ritenersi in re ipsa e, pertanto, conseguire automaticamente all'accertamento della suddetta violazione.
La II sezione civile della Corte di Cassazione, ritiene infondati tutti i motivi del ricorso principale e, successivamente, passando all'esame del ricorso incidentale lo accoglie, cassa la sentenza della corte d'appello di Palermo e rinvia il giudizio ad altra sezione della medesima corte d'appello, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
A sostegno della propria decisione il giudice di legittimità, nel ricordare i propri precedenti, osserva come << in caso di violazione delle distanze tra costruzioni determinante l'asservimento di fatto del fondo del vicino (è il caso di specie) o la limitazione di una servitù a suo favore, il danno deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria (cfr. Cass. 27.3.2008, n. 7972; nel caso di cui alla menzionata pronuncia, relativo alla violazione della servitù di veduta esercitata dal balcone dell'appartamento sito al primo piano sopraelevato, poiché il proprietario terreno aveva innalzato una tettoia in canne a meno di tre metri, questa Corte ha ritenuto corretta la liquidazione del danno in via equitativa da parte del giudice di merito, in mancanza di effettive prove fornite dal deducente, tenuto conto della modesta limitazione del diritto di prospetto e del modesto vantaggio derivato dall'ampliamento; cfr. Cass. 16.12.2010, n. 25475)>>.
Sul punto ritiene di esprimere il seguente principio di diritto <<il danno derivante dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni è “in re ipsa”, una volta dimostrato il fatto obiettivo della violazione, non occorre un'autonoma e specifica prova del pregiudizio sofferto, che può essere valutato dal giudice equitativamente a norma dell'art. 1226 c.c., ove risulti la difficoltà di una sua precisa determinazione in relazione alla peculiarità del fatto dannoso (cfr. Cass. 23.3.1993, n. 3414)>>.
Pertanto, coloro i quali ritengo violate le norme sulle distanze tra costruzioni previste dal codice civile ovvero di quelle integrative, vale a dire quelle imposte dai singoli regolamenti edilizi comunali, hanno diritto a due tipologie di tutela, una ripristinatoria (tutela in forma specifica), che ha ad oggetto la ricostituzione della situazione antecedente e, quindi, lo status quo ante all'accertata situazione di illegittimità, ma anche una tutela risarcitoria (tutela per equivalente), in relazione al danno subito in conseguenza dell'opera abusiva, conseguenza del momentaneo decremento del valore della proprietà di appartenenza, danno che, così come ricordato dalla Corte di Cassazione, deve ritenersi in re ipsa, non risultando necessaria alcuna specifica prova in merito, la cui liquidazione può anche avvenire in via equitativa.

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