Fisco

Dall’Imu alla Tari rebus di 30 miliardi

L’Ifel, la fondazione dell’Anci sulla finanza locale, ha consigliato ai sindaci una moratoria di interessi e sanzioni, offrendo anche una bozza di delibera

di Gianni Trovati

Il tentativo è stato vano, come mostra la battaglia scatenata dai sindaci nel vertice di giovedì con Palazzo Chigi. Ma le conseguenze si sentono.
Proviamo a capirle.

Imu

Con i suoi 20 miliardi all’anno l’Imu, la patrimoniale su un patrimonio che rischia di veder sgretolato il proprio valore dalla crisi, è la regina delle imposte locali. A buon diritto, quindi, è anche la regina del caos di oggi. In teoria i primi 10 miliardi andrebbero pagati con l’acconto del 16 giugno, ma tra imprese che hanno perso il fatturato e famiglie che hanno perso il reddito sono in tanti a temere di non farcela.

Una proroga non c’è, ma i Comuni possono prevederla, anche se la data del 16 giugno è fissata dalla legge nazionale. Miracoli dell’autonomia tributaria, che offre possibilità spesso sconosciute agli stessi amministratori locali.L’Ifel, la fondazione dell’Anci sulla finanza locale, ha consigliato ai sindaci una moratoria di interessi e sanzioni, offrendo anche una bozza di delibera. Ora si tratta di vedere quali enti sceglieranno questa strada, e come, in un calendario che potrebbe conoscere tante variabili quanti sono gli 8mila Comuni italiani. Per la gioia dei contribuenti chiamati all’ennesima caccia al tesoro fra delibere e regolamenti locali.

Attenzione, però: l’Imu è «municipale» ma capannoni e centri commerciali ne pagano una quota allo Stato (3,8 miliardi all’anno), e quella non sembra spostabile dai Comuni. Anche gli alberghi pagano l’Imu allo Stato, ma ora sono esentati dalla «prima rata» quando proprietario e gestore dell’immobile coincidono. Ma la «prima rata», per legge, è pari al 50% di quanto versato l’anno prima: per cui gli alberghi nati nel 2020, che nel 2019 hanno ovviamente versato zero, hanno diritto a uno sconto del 50% di zero. Cioè zero.

Tari

In fatto di caos, la Tari non è da meno. Anzi, il quadro si è ulteriormente complicato da quest’anno, con lo sfortunato debutto del nuovo metodo tariffario di Arera proprio mentre l’epidemia chiudeva bar, ristoranti, negozi e imprese, cioè tutti i principali pagatori della Tari «non domestica». L’Autorità (delibera 158) ha provato a venire incontro a queste categorie chiedendo ai Comuni di praticare sconti proporzionali al periodo di chiusura. Ma c’è un problema: la tariffa deve garantire la «copertura integrale» dei costi del servizio, che secondo la stessa Arera (delibera 189) sono aumentati con le sanificazioni e gli altri interventi eccezionali da pandemia, per cui le riduzioni riconosciute alle categorie più colpite dalla crisi rischierebbero di trasformarsi in aumenti per gli altri.

Secondo Ref ricerche, per tagliare del 7% la bolletta Tari alle attività sospese servirebbe chiedere il 15% in più a quelle rimaste aperte. Arera, per evitare il problema, ha chiesto al governo di mettere a disposizione 400 milioni per gli sconti, i Comuni temono perdite da 1,5 miliardi. Per ora il fondo non c’è.

Tosap/Cosap

Quella sul suolo pubblico è un’entrata “minore” per i Comuni (poco più di un miliardo all’anno), ma non per chi la paga. Per aiutare baristi e ristoratori chiamati a ripartire rispettando il distanziamento sociale, il governo ha pensato un’agevolazione che si è subito intricata in una serie di contraddizioni.

La norma dice che «le imprese di pubblico esercizio… sono esonerati (sic) dal 1° maggio al 31 ottobre» dal pagamento della tassa. Questa finestra imporrebbe ai Comuni di chiedere i versamenti di marzo e aprile, cioè proprio per le settimane in cui bar e ristoranti sono stati chiusi per legge.

A metterci una toppa può intervenire l’autonomia tributaria, con i suoi soliti paradossi. Già: perché alcuni Comuni applicano il canone per l’occupazione del suolo pubblico (Cosap) e altri la tassa (Tosap). Sono identici. Ma la tassa, spiegano i giudici costituzionali, è un’entrata tributaria e quindi non può essere azzerata, mentre il canone è un’entrata patrimoniale e il Comune può fare quel che crede.

Non solo. Il bonus riguarda «le imprese di pubblico esercizio», e quindi si dimentica di pizzerie al taglio, gelaterie e rosticcerie etichettate dalla legge come artigiani e non come «imprese». Per loro, niente sconti.

Imposta di soggiorno

Questa ideale via crucis nel fisco dei Comuni può conoscere come tappa finale l’imposta di soggiorno, anch’essa oggetto delle attenzioni della manovra anticrisi. Il blocco del turismo ha azzerato il gettito, e il governo ha previsto per ora un indennizzo di 100 milioni contro i 400 chiesti dai Comuni.

Ma non si è fermato lì. Già che c’era, l’esecutivo ha deciso di riformare l’imposta trasformando gli albergatori in responsabili dell’imposta (cancellando secondo alcune interpretazioni il loro ruolo di agenti contabili, con una mossa che depenalizzerebbe i mancati versamenti). Con il risultato che tutti i Comuni dovranno ora riscrivere i regolamenti.

Riscossione bloccata

A chiudere il cerchio c’è il sostanziale blocco di tanta parte dell’attività amministrativa e della riscossione.

I concessionari privati, che lavorano con 6mila Comuni, hanno scritto al governo per dire che le mancate entrate di questi mesi fanno saltare i conti. E hanno avviato un ricorso quasi totalitario alla cassa integrazione.

Insomma: le regole sono oscure, i contribuenti non hanno liquidità e la riscossione è in ginocchio aprendo spazi enormi a chi vuole evadere per scelta e non per necessità. Gli ingredienti per il cortocircuito fiscale ci sono tutti.

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