Condominio

Doppia via per le ordinanze delle Regioni

di Gianni Trovati

I presidenti di Regione e i sindaci potranno continuare a emanare ordinanze per fissare misure di contenimento sociale anti-coronavirus, pescando fra le 29 azioni possibili elencate dal nuovo decreto legge per dare una cornice nazionale alla gestione dell’emergenza. E nei casi in cui l’urgenza è meno immediata potranno proporre di regolare il tutto tramite i decreti di Palazzo Chigi, che potranno contenere norme relative a singoli territori.

Le ordinanze adottate nei giorni scorsi rimarranno in vigore per altri 10 giorni. Giusto il tempo tecnico per avviare il nuovo meccanismo di coordinamento fra decisioni statali e locali definito ieri dopo 24 ore di gestazione complicata dal consiglio dei ministri di martedì che ha dato il via alle norme quadro sulla crisi sanitaria.

Il compromesso
Finisce così ( come anticipato sul Sole24Ore di ieri ) il complicato tentativo del governo di mettere ordine nella pioggia dei provvedimenti locali.

Anche nel nuovo regime il potere di ordinanza delle Regioni viene quindi mantenuto. Con una doppia via. Quella maestra, almeno secondo l’impostazione del decreto legge, porta alla Presidenza del Consiglio, a cui i presidenti potranno proporre le misure restrittive da inserire nei decreti di Palazzo Chigi. Ma dal momento che in genere i tempi dettati dall’emergenza sono più concitati rispetto a quelli della catena normativa, «in casi di estrema necessità e urgenza» i presidenti potranno seguire la solita strada. E le loro ordinanze saranno in vigore fino all’adozione del Dpcm che le assorbe.

I limiti
Nelle loro scelte le Regioni non potranno incidere sulle attività «a rilevanza strategica per l’economia nazionale», cioè non potranno decidere chiusure di aziende attive in settori elencati fra quelli essenziali per il Paese. Ma si tratta di una precisazione relativa a un limite già presente nelle regole attuali, tanto è vero che la stessa ordinanza emanata sabato dalla Lombardia si era fermata sulla soglia delle attività economiche a cui indirizzava «raccomandazioni» e non obblighi. Nel caso dei sindaci, il nuovo decreto ribadisce invece che le loro ordinanze non potranno essere «in contrasto con le misure statali». Un argine già alzato, con alterna fortuna, dal primo decreto legge sull’emergenza, il 6/2020.

La situazione nei giorni scorsi
Il tentativo di raccordo arriva per superare il problema esploso soprattutto nel fine settimana, in particolare con le Regioni del Nord che avevano anticipato il governo nel mettere mano a provvedimenti urgenti per blindare il distanziamento sociale necessario a contenere il contagio.

Il decreto di Palazzo Chigi, arrivato solo domenica sera, si era rivelato poi un po’ più morbido su molti aspetti, per esempio sui limiti alle attività degli studi professionali (in particolare rispetto a Piemonte e Lombardia) o sulle chiusure domenicali dei supermercati (Emilia Romagna). Con il conseguente caos prodotto dall’incertezza su quali regole seguire nelle regioni interessate dal distanziamento sociale nelle forme più rigide. L’idea iniziale discussa nel consiglio dei ministri di martedì aveva puntato su una sorta di verifica gerarchica in cui Palazzo Chigi avrebbe validato o respinto le decisioni regionali e le regioni avrebbero fatto lo stesso con quelle dei Comuni. Ma non ha retto al rischio di una collisione troppo frontale con una Costituzione che al Titolo V mette sullo stesso piano Stato, Regioni, Province e Comuni nell’ordinamento della Repubblica.

Di qui l’idea del doppio canale, per far rientrare le decisioni territoriali nella cornice dei decreti di Palazzo Chigi permettendo però di agire d’urgenza quando la situazione lo richiede. Ma più che nel meccanismo giuridico la scommessa è sul coordinamento politico: proprio quello che è mancato nei giorni della corsa alle ordinanze lanciate in anticipo su Palazzo Chigi.

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