Condominio

Se il cortile non è comune è vietato aprire vedute

di Rosario Dolce

Quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari individuali al riguardo, il relativo uso è assoggettabile alle norme sulla comunione in generale.
Viene subito in considerazione la disciplina di cui all'articolo 1102, comma 1, Codice civile, in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti. Così, ad esempio, l'apertura di vedute sull'area antistante di proprietà comune ed indivisa tra le parti andrebbe considerata in sé lecita, con il solo limite segnato dalla norma in disamina. Ove i fabbricati in disamina, poi, siano costituiti da edifici condominiali, la disciplina applicabile dovrebbe essere quella segnata dall'articolo 1117 bis codice civile, trattandosi di una fattispecie di “supercondominio”.
Altro discorso va fatto, invece, se la “corte” in disamina non sia una parte comune tra edifici circostanti, nel senso che non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale tra edifici limitrofi, che costituisce il fondamento della condominialità dell'area scoperta, ai sensi dell'art. 1117 Codice civile.
Allora, in questi casi, come poter procedere, per non commettere errori?
A questo offre una risposta compiuta la Sentenza numero 26807 della Suprema Corte di Cassazione pubblicata in data 21 ottobre scorso (giudice relatore Antonio Scarpa) .
I giudici di legittimità, in particolare – cioè, con riferimento al caso dell'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune - affermano che occorra fare riferimento alla disciplina contenuta nell'articolo 905 Codice civile (a mente de quale: Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo).
Viceversa, non risulta applicabile alla fattispecie: né il principio di cui all'art. 1102 Codice civile - il quale risulta estraneo ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi (Cassazione civile, 04/07/2018, n. 17480; conformi 21/05/2008, n. 12989; 20/06/2000, n. 8397; 25/08/1994, n. 7511; 28/05/1979, n. 3092); - né il principio “nemini res sua servit”, il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante (Cassazione civile. 03/10/2000, n. 13106; conformi 02/06/1999, n. 5390; 18/02/1987, n. 1755).
La conclusione tratta, dunque, è quella per cui il partecipante alla comunione del cortile non può aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell'immobile di sua esclusiva proprietà, poiché, se così facesse, imporrebbe di fatto una servitù illegittima, con tutte le conseguenze giuridiche e fattuali che da esse discendono.

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