Condominio

La Cassazione scioglie il rebus tra distanze e piano urbanistico

di Valeria Sibilio

Il rispetto legale delle distanze tra immobili genera costantemente diatribe giudiziarie tra i proprietari, finalizzate, spesso, anche a risarcimenti morali dei danni. Un esempio ci perviene dall'ordinanza della Cassazione n° 20534 del 2019.
Motivo dell'alterco, la distanza di metri 7,50 tra due immobili confinanti. I comproprietari del primo convenivano in giudizio i medesimi del secondo, rei, a loro dire, di aver realizzato il proprio immobile ad una distanza di metri 7,50, in violazione della distanza minima inderogabile di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici frontistanti, prescritta dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968. Gli attori chiedevano che i convenuti venissero condannati a demolire il loro manufatto sino al rispetto della distanza legale, per l'intero sviluppo in altezza e in larghezza del fabbricato, e al risarcimento del danno, oltre che materiale, anche morale nella somma ritenuta di giustizia. I convenuti, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto della domanda, chiamando in causa il Comune – che resterà contumace - per essere manlevati da ogni eventuale condanna che fosse pronunciata in loro danno.
Dopo una perizia svolta, il Tribunale di Venezia rigettava la domanda attorea, sul presupposto che il comparto edificatorio costituito fosse uno strumento equivalente ai piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, nell'ambito dei quali sono consentite fra gli edifici anche distanze inferiori a 10 metri.
La Corte d'Appello di Venezia, al quale i precedenti ricorrenti avevano chiesto la riforma della decisione in primo grado, confermava la sentenza impugnata, condannando gli appellanti alle spese di lite. Una decisione che portava i proprietari, precedentemente ricorrenti, a proporre ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi, ai quali resistevano sia i precedentemente convenuti che il Comune chiamato in causa in secondo grado.
Con il primo motivo, secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata aveva erroneamente applicato l'art. 9 ultimo comma del D.M. n. 1444/1968, in quanto, in difetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, la regola normativa da applicare non era quella prevista dall'ultimo comma dell'art. 9, bensì quella generale di cui al comma 1 n. 2, dei 10 metri tra pareti finestrate.
Con il secondo motivo, lamentavano che la Corte di merito avesse ritenuto rispettosa delle norme l'edificazione degli allora convenuti in quanto ciò era risultato alla stregua degli accertamenti di una perizia i cui esiti sarebbero stati di segno opposto. Le deroghe, nel caso in oggetto, non erano ammesse all'epoca della presentazione delle istanze, del rilascio delle autorizzazioni e dell'esecuzione dell'edificio in quanto il comparto edificatorio è uno strumento diverso da quello previsto dall'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, che ammette distanze inferiori nel caso di edifici che formino oggetto di un Piano Particolareggiato, per cui le deroghe sono ammesse all'interno di quest'ultimo, ma debbono sempre essere rispettate le distanze nei confronti degli edifici insistenti nei lotti confinanti. Con il terzo ed ultimo motivo, i ricorrenti chiarivano di aver evidenziato, in sede di appello, che il Giudice di primo grado avrebbe dovuto concludere che il Regolamento Edilizio Comunale, approvato nel 1999 e dunque successivo al D.M. n. 1444/1968, risultasse in contrasto con l'art. 9, che prescrive a metri 6 la sola distanza dal confine, e tener conto dell'obbligatoria distanza di metri 10 tra pareti finestrate di edifici frontistanti.
Per la loro connessione logico-giuridica, gli ermellini hanno esaminato congiuntamente i motivi, ritenendoli inammissibili. Ogni ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata e proposta in modo specifico e completa, vista la sua funzione di determinare e limitare l'oggetto del giudizio della Corte, esponendo argomentazioni esaurienti ad illustrazione delle presunte violazioni di norme principi di diritto. Nel caso in questione, il ricorso presentato si è connotato per una sovrabbondante esposizione delle argomentazioni contenute nei giudizi di primo e secondo grado, evocate frammentariamente.
Inoltre, è risultato privo di una precisa identificazione, necessaria per evidenziarne ed individuarne il preciso contenuto, onde analizzarne la fondatezza o meno. Le censure sono apparse contraddistinte dall'evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi nella richiesta di una inammissibile generale rivalutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata. Non solo, ma il discrimine tra la violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione di una astratta fattispecie normativa, e l'erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.
Pertanto, la censura con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall'art. 360 n. 3 c.p.c. deve essere dedotta e formulata, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie. È risultata, perciò, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme violate ma non dimostrate per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia.
Il controllo affidato alla Corte non equivale all'opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione. Nel merito, ha dato un'argomentata motivazione circa la valutazione del quadro probatorio acquisito, anche rilevando che il Comune, attraverso il Piano regolatore e le successive varianti aveva inteso operare una pianificazione unitaria di quella certa porzione del territorio comunale, assegnandole una valenza urbanistica particolare, tale da garantire il raggiungimento di un assetto complessivo unitario. Affermando, inoltre, che il comparto edilizio in questione era stato fatto legittimamente rientrare, dal primo Giudice, nella previsione di cui all'ultimo comma dell'art. 9 DM 1444/1968, trattandosi di cosiddetto piano attuativo di terzo livello, nell'ambito del potere comunale di conformazione del territorio. Con riferimento al secondo motivo, i ricorrenti avrebbero dovuto indicare il “fatto storico” e gli altri elementi necessari per un ricorso ammissibile. Indicazioni non evidenziate con chiarezza.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando i ricorrenti alla refusione delle spese di lite, in favore dei resistenti, liquidate in euro 5.500,00 di cui euro 200,00 per rimborso spese vive, ed in favore del resistente Comune di San Michele al Tagliamento, liquidate in euro 8.000,00 di cui euro 200,00 per spese; oltre al rimborso forfettario a ciascuna parte controricorrente delle spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge.

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