Condominio

Sopraelevazione, l’abuso edilizio non conta in Cassazione se le distanze sono rispettate

di Valeria Sibilio

La sopraelevazione di una costruzione preesistente deve sempre rispettare le distanze legali ed il diritto di prevenzione, che viene riconosciuto a chi edifica per primo, trova esaurimento con il completamento della struttura originaria. Un dovere che conosceva bene la signora convenuta, dinanzi al Tribunale di Latina, dal proprietario di una costruzione che ne invocava la condanna e la demolizione della sopraelevazione che l'attrice aveva effettuato in presunta violazione delle distanze legali ed in assenza di una idonea concessione.
La convenuta si costituiva, contestando la domanda e chiedendo, in via riconvenzionale, l'accertamento della violazione delle distanze legali della finestra del bagno e dei balconi posti sui lati est ed ovest dell'edificio dell'attrice, deducendo che, pertanto, la servitù di veduta a favore della proprietà dell'attrice era inesistente.
Il Tribunale respingeva la domanda principale, accogliendo invece la riconvenzionale e condannando la proprietaria a ridurre la finestra del bagno in luce ed a realizzare, a partire dal corrimano dei balconi sino al solaio superiore, una parete atta ad impedire l'affaccio sulla proprietà della convenuta. Decisione confermata anche dalla Corte d'Appello. La precedentemente ricorrente proponeva ricorso per Cassazione, affidandosi ad un unico motivo, al quale resisteva la convenuta con controricorso. La ricorrente lamentava il fatto che la Corte di Appello di Roma non avrebbe considerato le ordinanze di sospensione lavori e di demolizione, emesse dal Comune di Formia in relazione agli interventi di sopraelevazione eseguiti, oltre al fatto che il T.A.R. del Lazio aveva accertato la natura abusiva delle opere. La convenuta, per il ricorrente, avrebbe condiviso le modifiche apportate negli anni all'immobile oggetto di contestazione ed, inoltre, la resistente aveva riconosciuto la circostanza che in origine l'immobile costituiva un unico corpo, assentito con unica licenza edilizia prevedente servitù reciproche tra le diverse porzioni.
Per la Cassazione (sentenza 19829/2109), la doglianza è stata giudicata infondata. La Corte di Appello aveva esaminato le autorizzazioni e gli atti di provenienza, dando atto anche delle indagini svolte dalla perizia la quale aveva riferito che sulle pareti di confine tra i lotti erano previste delle luci per i bagni da realizzarsi ad ogni livello nelle due costruzioni e che il manufatto della convenuta fosse parallelo alla parete dell'immobile costruito sul terreno del ricorrente. All'interno del manufatto era presente la parte terminale del piccolo cavedio che dava luce ed aria alle aperture dei bagni dei piani sottostanti.
Per gli ermellini, la Corte territoriale aveva giustamente escluso l'esistenza di una parete finestrata e, quindi, l'operatività del limite di dieci metri previsto dal D.M. n.1444/1968. Circa la violazione delle distanze, il consulente aveva specificato che i grafici allegati alla concessione del 1990 la prevedevano come luce, mentre i grafici della variante della concessione edilizia la consideravano come veduta.
Da tali premesse, la Corte di Appello aveva concluso per l'insussistenza del diritto al mantenimento della veduta e per la riduzione della stessa in luce. Per quanto invece concerne i balconi, la stessa Corte aveva affermato che la distanza del balcone lato ovest dell'appartamento sino all'edificio era pari a cm.126, distanza questa inferiore a quella di legge (un metro e mezzo) come peraltro si evidenziava anche per l'altro balcone lato est dei rilievi fotografici in atti, concludendo che dovevano essere apposti accorgimenti idonei a queste aperture tali da evitare l'affaccio sull'immobile della convenuta. Tenuto conto che non è sindacabile, in sede di Cassazione, l'apprezzamento che il giudice di merito aveva fatto delle risultanze istruttorie, risulta irrilevante la circostanza che il T.A.R., con la sentenza n.11087/2014, avesse accertato la natura abusiva delle opere di sopraelevazione realizzate dalla Carta, in considerazione del principio di autonomia del rapporto intercorrente tra privato e pubblica amministrazione rispetto al diverso rapporto tra frontisti e confinanti.
La Suprema Corte ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di giudizio liquidate in euro 5.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%.

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