Condominio

Stop al ristorante in condominio se il regolamento permette solo i «negozi»

di Enrico Morello

Ancora una volta la Corte di Cassazione (sentenza 9402/2019, relatore Antonio Scarpa) deve pronunciarsi sull’interpretazione di una clausola di un regolamento condominiale contenente il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità e all’abitabilità dell'intero edificio. In particolare, il caso in questione riguardava l'impugnazione di una delibera assembleare promossa avanti al Tribunale di Roma ed avente ad oggetto appunto, l'interpretazione del regolamento condominiale in merito alla possibilità, o meno, della installazione di canne fumarie ai fini dell'esercizio della attività di ristorazione.
La cassazione, in proposito, rilevava anzitutto come l'interpretazione delle clausole del regolamento condominiale sia sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di «ermeneutica contrattuale» ovvero per l'omesso esame di fatto storico. Il che secondo la suprema Corte non si era verificato nel caso di specie.
Passando al merito della questione la Cassazione afferma che come «per le esigenze di chiarezza e univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva», è bene che la portata di tali limiti, così come prevista nel regolamento di condominio, venga anzitutto verificata fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterarie utilizzate nel regolamento stesso.
Secondo la Cassazione, in sostanza, l'articolo 1362 c.c., con il prescrivere all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti, non svaluta affatto l'elemento letterale del testo, anzi al contrario ribadisce che proprio dalle espressioni utilizzate nel testo (in questo caso il regolamento di condominio) si possa risalire alla volontà espressa a suo tempo dalle parti.
Venendo al caso di specie, quindi, utilizzando i criteri ermeneutici poc'anzi esposti, la Cassazione ha ritenuto vietata l'attività di ristorazione in un condominio proprio in base al testo letterale del regolamento.
Ed in particolare dal divieto contenuto in una clausola di destinare i negozi ad uso diverso «da commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti».
Secondo la Cassazione, in altre parole, una interpretazione letteraria di tale clausola, porta a pensare che il regolamento in questione abbia inteso permettere solo le attività di commercio in senso stretto, quelle attività cioè che si risolvano nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti.
Sempre in base alla interpretazione letteraria di detta clausola, quindi, risulta secondo la Suprema corte viceversa vietata la attività di ristorazione: «in quanto comunque o connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari ai fini di commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo…oppure consistente, in ogni caso, nella produzione di beni per somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di laboratori di carattere artigianale».

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