Condominio

Con il custode pene più gravi a chi prova a rubare nel condominio

di Giulio Benedetti

Nella gestione dei condomini spesso ricorre, nel corso delle assemblee condominiali, l'argomento sull'utilità di mantenere il servizio di portierato o se sia meglio risparmiare sul suo costo del servizio. Notasi che per il contratto collettivo nazionale i custodi prestano la sua opera, con o senza alloggio, per la vigilanza e per le altre mansioni negli stabili. Tale attività di custodia dei condomini è sempre più preziosa in un'epoca in cui la criminalità prende maggiormente di mira le abitazioni private per saccheggiarle.
La Corte di Cassazione (sent n. 57710/2018) ha riconosciuto tale alto compito sociale esaminando il ricorso di un soggetto avverso una sentenza di condanna che lo aveva riconosciuto responsabile, in concorso con un complice rimasto ignoto, in quanto fuggito alle ricerche dell'autorità di P.S., del reato di tentato furto aggravato (artt. 110,56,624 bis, 625 n. 2 c.p.) all'interno di alcuni appartamenti di un condominio. In particolare il reo dapprima forzava la serratura del cancello d'ingresso, poi, al fine di impossessarsi di quanto contenuto negli appartamenti, si introduceva nel condominio e non riusciva nel suo intento per l'intervento del custode.
A seguito di tale comparsa il reo fuggiva e poi veniva fermato dalla forze dell'ordine. Il ricorrente, tra gli altri argomenti difensivi, affermava che fosse errata la sua dichiarazione di penale responsabilità per il predetto reato, basata sulle mere percezioni soggettive del custode, il quale sosteneva di avere identificato con certezza, in condizioni di scarsa illuminazione, attraverso il vetro della portineria i due soggetti che si erano avvicinati allo stabile. Inoltre affermava che fosse una semplice impressione del custode quella di avere identificato un rumore proveniente dalla porta del cancello, come uno scatto dipendente dalla forzatura della porta di un appartamento del condominio, in quanto tale rumore avrebbe potuto dipendere anche dall'apertura della serratura con la chiave.
Il ricorrente forniva un' interpretazione alternativa secondo la quale i due soggetti, avvicinatisi al cancello, senza forzarlo, si fossero dati alla fuga in quanto spaventati dal custode.
La Corte di Cassazione non sposava tali interpretazioni difensive volte a scardinare il giudizio sulla responsabilità per furto in un'abitazione, mediante l'introduzione di elementi di ambiguità nella lettura del quadro probatorio fondante la condanna. Infatti la Cassazione conferma il ragionamento del giudice di appello per cui il custode non solo ha raccontato di avere visto due uomini, diversi dia condomini, armeggiare sul cancello, di avere sentito un rumore, come uno scatto, di essersi diretto, a sua volta verso il cancello, quando i due si davano alla fuga, ma ha descritto il loro abbigliamento ed ha riconosciuto il ricorrente come uno dei due soggetti avevano forzato il cancello.
Conclude la Corte di Cassazione che la perfetta coerenza e logicità delle argomentazioni della Corte di Appello esonerano da ogni ulteriore vaglio la sentenza, attesi i limiti del giudizio di legittimità che non comportano un terzo grado di esame del merito della vicenda. La Corte di Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, annullando la sentenza limitatamente al punto concernente l'aggravante della violenza sulle cose, rinviando per un nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello, mantenendo inalterato l'affermazione di responsabilità del ricorrente in ordine al predetto reato. Invero il giudice di legittimità afferma che per ritenere avverata l'aggravante della violenza sulle cose (art. 625 n. 2 c.p.) occorre che si produca la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o quantomeno una modificazione della sua destinazione d'uso. Vale a dire che vi sia la necessità di un ripristino, anche minimo, della cosa che è derivata dalla manomissione, o dal mutamento di destinazione, del bene su cui si è prodotta l'energia fisica. Invece è esclusa l'aggravante quando l'energia impiegata sulla cosa non coincide con una sua manomissione, ma si risolve in una semplice manipolazione, che pur se posta in essere tramite una forzatura della cosa, tuttavia non implichi alcun danno, lasciando immutata la sua destinazione.
È il caso, per esempio in cui l'energia fisica sia diretta ad aprire una serratura e, pur agevolando lo scopo, non produca alcun danno sulla medesima, conservandone l'idoneità alla funzione che le è propria. Pertanto la Corte di Cassazione incarica la Corte di Appello, in altra composizione, di riesaminare il trattamento sanzionatorio, per valutare la sussistenza dell'aggravante con riferimento ad un concreta valutazione sull'effettività del danno, sulla necessità di ripristino della serratura aperta dal ricorrente e sulla modificazione della sua destinazione.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©