Condominio

È reato suonare di notte il campanello del vicino

di Giulio Benedetti

La convivenza all'interno dei condomini è spesso assai difficile e la conflittualità si riverbera all'interno delle assemblee e nei rapporti tra i proprietari e l'amministratore. I reati sentinella di tale difficoltà esistenziale sono quelli relativi al rumore (art. 659 c.p.) , agli atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e alle molestie (art. 660 c.p.) .
Gli atti persecutori , per essere penalmente rilevanti, devono consistere in condotte reiterate con cui taluno minaccia o molesta un vicino in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia e di paura , ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità sua o di un congiunto o di una persona a cui è legato affettivamente , ovvero da costringerlo a cambiare le abitudini di vita . Il reato è doloso ed è punito severamente , ma non sempre è contestabile per quanto usualmente avviene nel condominio , dove avvengono fatti ugualmente deplorevoli, ma di tipo minore.
Assai più ricorrente è l'ipotesi della molestia con la quale una persona «in un luogo pubblico o aperto al pubblico o con l'uso del telefono , per petulanza o per altro biasimevole motivo , reca a taluno molestia o disturbo». Il reato è una contravvenzione , punita in misura minore , e l'agente può commetterla sia con intenzione , con dolo, o per colpa , vale a dire per negligenza , imprudenza od imperizia. Occorre notare che nel processo la persona offesa può costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento dei danni . Invero , per l'art. 185 c.p., ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale , obbliga al risarcimento il colpevole o le persone che a norma delle leggi civili debbono rispondere per il suo fatto.
La Corte di Cassazione (sent. n. 48696/2018) ha dichiarato inammissibile il ricorso di un soggetto che era stato riconosciuto colpevole della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p.. In particolare il ricorrente , per petulanza od altro biasimevoli motivo , in evidente stato di ebbrezza ed in orario notturno presso l'abitazione di una vicina, suonava ripetutamente il campanello tanto da svegliare i famigliari ed i condomini e recava disturbo e molestia alla donna. Il ricorrente si lamentava del fatto che la sentenza non avesse riconosciuto a suo favore la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p..Tale norma prevede la non punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni , ovvero la pena pecuniaria , sola o congiunta alla predetta pena , quando , per le modalità della condotta e per l‘esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento non risulta abituale. La Corte di Cassazione condivide la motivazione della corte territoriale che non ha applicato tale causa di non punibilità alla luce di una valutazione complessiva della vicenda e dello spessore lesivo dell'azione svolta di notte , presso l'abitazione della persona offesa. La Corte di Cassazione ha affermato che l'assenza dei presupposti per l'applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita. Pertanto il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto è fondato dalla valutazione del giudice circa la non esiguità della condotta del ricorrente e dalle modalità della sua condotta obiettivamente molesta ed ispirata da motivi abbietti e futili. La determinazione del trattamento sanzionatorio e la graduazione della pena, anche con riferimento al bilanciamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito che fissa la pena base in conformità ai principi sanciti dagli articoli 132 e 133 c.p.. Non è ammesso il sindacato di legittimità su tale valutazione qualora non sia espressione di palese illogicità e sia sorretta da sufficiente motivazione che si limiti ad indicare la soluzione più idonea a realizzare la pena irrogata in concreto. La Corte di Cassazione nel dichiarare l'inammissibilità del ricorso (ovvero irrogando la massima sanzione processuale per la quale il ricorso non poteva essere neppure proposto per insussistenza delle ragioni di diritto) ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 3.000 alla Cassa delle Ammende.

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