Condominio

I divieti-vincoli di “utilizzo” nel regolamento di condominio

di Davide Longhi

La tematica oggetto del presente articolo prende spunto dalla decisione della Suprema Corte di Cassazione che, con l'ordinanza del 21-06-2018 n. 16384 (si veda il Quotidiano del Sole 24 Ore - Condominio del 22 giugno scorso) , ha messo nuovamente in evidenza la tematica delle attività vietate (destinazione d'uso) che sono specificatamente contemplate nel regolamento di condominio.
Il caso posto al vaglio della Suprema Corte ha riguardato la vertenza giudiziale nella quale un condominio ha citato in causa (Tribunale di Como) un condomino che ha destinato la propria unità immobiliare, facente parte del condominio, ad una attività di “asilo nido” (nello specifico di micro-nido) chiedendo la cessazione di tale attività perché contrastante con una specifica clausola di divieto posta nel regolamento condominiale di tipo contrattuale. In 1° grado il Tribunale di Como, con la sentenza del 4 marzo 2013, ha accolto la domanda proposta del condominio attore. Contro la detta sentenza è stato proposto appello, che si è concluso con la sentenza n. 3691/2016 della Corte d'Appello di Milano in data 5 ottobre 2016, che ha rigettato l'appello avanzato dal singolo condomino, soccombente, a questo punto, sia nel 1° che nel 2° grado di giudizio. Si giunge, quindi, al 3° grado di giudizio e con il ricorso per cassazione, proposto sempre dal singolo condomino, si lamenta la non corretta interpretazione della clausola prevista nel regolamento di condominio (che vieta gli asili nido) con l'attività effettivamente svolta dal condomino il c.d. “micro-nido” istituito dalla legge 28 dicembre 2001, n. 448 e che trova, poi, anche apposita disciplina in specifiche delibere della Giunta Regionale Lombardia. Il ricorrente lamenta la circostanza che l'attività di asilo nido sia cosa diversa rispetto l'attività di micro-nido da lui esercitata, e che solo quest'ultima, a differenza della prima, non arrecherebbe il “disturbo” alla tranquillità/quiete condominiale che risulterebbe preservata/tutelata proprio dal divieto posto nel regolamento di condominio (divieto di asilo nido).
La Corte di Cassazione con l'ordinanza sopra citata rigetta il ricorso e afferma che “…l'interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l'omesso esame di fatto storico ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 …” (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).
Interpretazione della clausola regolamentare
Diventa importante verificare/analizzare la presenza di specifici divieti presenti nel regolamento condominiale di tipo contrattuale (l'unico in grado di porre delle limitazioni alle più ampie facoltà del diritto reale assoluto: il diritto di proprietà). Leggendo i più comuni regolamenti di condominio si può verificare la presenza di una siffatta perifrasi: “…i locali dovranno essere adibiti esclusivamente ad abitazioni, uffici, studi professionali e di rappresentanza o negozi ad esclusione di: negozi di pescherie, locande, affittacamere, asili nido … e comunque non farne uso contrario alla tranquillità e al deco¬ro dello stabile, all'igiene e alla morale…”.
Di norma i divieti/limiti di destinazione delle proprietà private sono formulati nei regolamenti condominiali:
a) mediante un'elencazione tassativa delle attività specificatamente vietate, cioè vengono elencate le attività non desiderate ed escluse;
b) con riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare, mediante la presenza di una norma che individui l'attività vietata non in sé, bensì in relazione al danno potenzialmente cagionabile alle parti comuni o ai singoli condomini (turbamento della quiete e della tranquillità dei condomini, del decoro, della morale (Cass. 9564/1997 – Cass. 20237/2009 - Cass. 3002/2010)
L'interpretazione delle due tipologie di clausole (vedi sopra lett. a et b) contenute nel regolamento di condominio dovrà avvenire secondo le regole dettate in materia di contratti sulla base a) dei criteri ermeneutici soggettivi artt. 1362-1365 c.c. (comune intenzione dei contraenti senza limitarsi al solo significato letterale) e b) criteri ermeneutici oggettivi artt. 1366-1370 c.c. (interpretazione sul significato più idoneo circa la natura, l'oggetto, la funzione economica e sociale del contratto). Occorre ricordare come la Suprema Corte (Cass. n. 4125/2011) abbia affermato l'inammissibilità di un'interpretazione c.d. estensiva del divieto ovvero: “…Le clausole del regolamento condominiale che vietano la destinazione delle singole unità immobiliari allo svolgimento di determinate attività, essendo limitative dei diritti del proprietario, non sono suscettibili di interpretazione estensiva…”. Così anche il Trib. Milano sentenza n. 20/07/2010 ha stabilito che: “…le stesse non sono applicabili analogicamente né appaiono suscettibili di interpretazione estensiva…”.
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Per fare un esempio in relazione al caso qui in oggetto: la clausola che vieta l'attività di “asilo nido”, se non può essere interpretata in modo estensivo analogico, la stessa non può neanche essere interpretata in modo da poter distinguere all'interno della stessa attività “vietata” le diverse forme/modalità/tipologie di esercizio della medesima attività: “asilo nido” - “asilo di infanzia” - “micro-nido”. Queste, infatti, sono tutte forme di espressione della medesima attività “assistenziale ed educativa” resa a favore di minori, anche in tenerissima età, e che si differenziano tra loro solo per le dimensioni strutturali di recettività.
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Quindi anche l'interpretazione di quelle clausole contrattuali che si riferiscano ai pregiudizi che s'intendono evitare (vedi sopra lettera b), deve avvenire in modo tale che in concreto (e non in via potenziale) si riesca a “…dimostrare l'effettiva e attuale messa in pericolo della tranquillità e sicurezza dei condomini all'interno degli spazi comuni per via dell'espletamento dell'attività contestata…” (Trib. Milano sentenza del 10/02/2016).
Qualificazione giuridica del divieto
Altro aspetto importante riguarda l'analisi e la qualificazione giuridica dell'opponibilità dei divieti/limitazioni di destinazione d'uso contenuti nel regolamento di condominio. In ambito giurisprudenziale (sia di merito sia di legittimità) sono state sviluppate due tesi interpretative, e precisamente:
1^ tesi: la clausola deve essere qualificata come “servitù”, pertanto, per la sua opponibilità, necessita la trascrizione nei registri immobiliari essendo la servitù anch'essa un diritto reale (servitù a carico dell'unità immobiliare alla quale è imposto il divieto a favore delle altre unità immobiliari c.d. servitù reciproca atipica);
2^ tesi: la clausola deve essere qualificata come un onere o ancora una c.d. “obbligazione propter rem” (che impone una relazione di subalternità tra l'obbligato e il titolare del diritto di proprietà), e come tale, per essere opponibile, non necessita della sua trascrizione nei registri immobiliari ma la sua conoscibilità ed accettazione da parte dei condomini/acquirenti (mediante il c.d. richiamo per relationem).
Sulla scorta di queste due tesi giuridiche, la stessa Corte di Cassazione ha espresso nel tempo, anche recente, vari orientamenti:
1° ORIENTAMENTO: con una sentenza rigorosa (Cass. 6100/93), la Suprema Corte ha affermato che la clausola contrattuale che impone il divieto di destinare i locali di proprietà esclusiva a determinate attività, debba essere:
a) approvata all'unanimità e per avere efficacia debba essere trascritta nei registri immobiliari oppure
b) essere menzionata ed accettata espressamente nei singoli atti d'acquisto. Questa sentenza/orientamento sposa entrambe le due tesi sopra citate e pone due condizioni alternative per l'opponibilità: la trascrizione intesa come servitù (Cass. 3749/99; Cass. 14898/13) o la sua accettazione nel rogito in forza della relatio bilaterale (il c.d. richiamo) (Cass. n. 11684/02 - Cass. n. 6299/2015).
2° ORIENTAMENTO (che risultava maggioritario fino a qualche tempo fa, ora forse non più): la Corte, consolidando la propria giurisprudenza, con le sentenze n. 19212/2016 (pubblicata in data 28/09/2016) e n. 22310/2016 (pubblicata in data 03/11/2016) e con l' ordinanza 2 marzo 2017, n. 5336, ha statuito che le clausole di natura contrattuale, che pongano limiti ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, debbano essere enunciate in modo “…chiaro ed esplicito…” e siano vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione nell'atto di acquisto, si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che - seppure non inserito materialmente - debba ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto (conformi Cass. 19209/2011 - Cass. n. 17886/09 - Cass. 10523/03 - Cass. 395/93 – Cass. 4905/90).
3° ORIENTAMENTO: (che sembra consolidarsi nel nostro tempo) dopo solo pochi giorni dalla pubblicazione della sopra citata sentenza (vedi 2° orientamento), la Corte di Cassazione ritorna sui propri passi e con la sentenza n. 21024/2016 (pubblicata in data 18/10/2016) seguita dalla sentenza n. 6769 del 19 marzo 2018, ricorda e pone l'interrogativo sulla natura delle clausole regolamentari contrattuali che impongono limitazioni/divieti alla proprietà privata. Con questa sentenza la Suprema Corte fa propria la 1^ tesi sopra citata affermando che “…non è sufficiente indicare nella nota di trascrizione il regolamento medesimo, ma, ai sensi degli artt. 2659 comma 1 n. 2 e 2665 cc., occorre indicarne le specifiche clausole limitative…” (conforme Cass. n. 17493/14). La stessa afferma, quindi, che la clausola contenuta nel regolamento di condominio che pone un limite/divieto debba essere qualificata come una servitù atipica (e non un'obbligazione propter rem) e per poter essere opponibile al terzo acquirente/condomino, debba essere trascritta nei registri immobiliari e più precisamente deve essere espressamente indicata nella nota di trascrizione, ai sensi degli artt. 2659 et 2665 c.c. in una nota di trascrizione distinta da quella dell'atto di acquisto non essendo più sufficiente il solo generico rinvio per accettazione al regolamento condominiale. Si precisa che l'obbligo della trascrizione riguarda non tanto il regolamento condominiale nella sua totalità, quanto, invece, le singole clausole contenenti limiti alla proprietà privata, in quanto sono le singole clausole che costituiscono la “servitù atipiche” che richiedono la trascrizione.
Sul tema della trascrizione si rinvia all'articolo 2659 c.c., il quale prevede la trascrizione richiesta dal condominio; articolo che depone per la soggettività del condominio di cui alla recente ordinanza della Corte di Cassazione del 15 novembre 2017 n. 27101, in forza della quale la 2^ sezione della medesima Corte ha ritenuto meritevole rimettere alle Sezioni Unite la questione relativa proprio alla soggettività del condominio (cfr. sul tema anche nota del notariato n. 906/2013/c studio del notariato).
In conclusione: si può notare come il 3° orientamento sia quello più tecnico e rigoroso, che richiede la trascrizione specifica (presunzione legale di conoscenza) della clausola contenuta nel regolamento per l'opponibilità della stessa ai futuri acquirenti delle unità immobiliari a parte del condominio, il tutto sul presupposto che “oggetto della pubblicità immobiliare non è di per sé l'atto, quanto il suo effetto” nel senso che la trascrizione dell'atto sia solo strumentale al fine dell'opponibilità ai terzi dei divieti di destinazione d'uso della proprietà privata qualificati come servitù atipiche e contenuti nel regolamento di condominio di tipo contrattuale.

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