Condominio

L’orto della sorella non si tocca

di Valeria Sibilio

L'utilizzo di un bene comune in comproprietà è stato l'origine del procedimento giudiziario culminato con l'ordinanza 13874 della Cassazione , la quale ha esaminato un caso in cui, a seguito della sentenza del Tribunale, una signora era divenuta comproprietaria, in ragione della metà indivisa, di un orto. Il fratello aveva sempre raggiunto detta particella transitando, anche con mezzi meccanici, attraverso il cortile comune nel quale, durante il corso del giudizio, aveva posizionato delle fioriere che impedivano l'accesso all'orto. Inoltre, aveva ristrutturato una baracca, realizzando una serie di opere costituenti illegittime servitù ed aggravi. In particolare un marciapiedi esterno lungo tutto il perimetro dell'edificio situato sull'orto, l'apertura di una porta e la trasformazione di una luce in finestra, l'ampliamento della gronda del tetto con sottostante apposizione di un condizionatore d'aria e parcheggio di motocicli e biciclette, la posa in opera di tubi interrati volti a condurre l'acqua piovana su un altro fondo di proprietà esclusiva del fratello.
L'attrice citava perciò, in giudizio, dinanzi al Tribunale, il fratello, chiedendone la condanna al ripristino dello stato dei luoghi oltre al risarcimento dei danni. Quest'ultimo, costituendosi in giudizio, chiedeva, in via preliminare, l'integrazione del contraddittorio nei confronti della comproprietaria dell'orto, deducendo l'infondatezza delle pretese, evidenziando che, al momento della realizzazione delle opere, la particelle edificabile e l'orto erano entrambe di sua proprietà, essendo divenute comuni solo a seguito di sentenza della Suprema Corte, con conseguente applicabilità della disciplina di cui agli artt. 1061-1062 c.c. (servitù per destinazione del padre di famiglia). Contestava, inoltre, la pretesa dell'attrice di poter accedere all'orto transitando, previa rimozione delle fioriere, attraverso la particelle edificabile, risolvendosi ciò, a suo dire, nell'imposizione di una servitù a carico della cosa comune. In via riconvenzionale, chiedeva venisse accertata la costituzione per destinazione del padre di famiglia della servitù di tollerare la permanenza delle opere indicate a distanza minore della legale. Il Tribunale condannava l'attore a rimuovere i veicoli parcheggiati al di sotto della gronda del tetto del fabbricato edificato, il condizionatore d'aria, il marciapiede e le tubature interrate. Inoltre, rigettava la domanda di danni dell'attrice, dichiarando che le comproprietarie dovevano tollerare la sporgenza, sul loro fondo, della gronda del tetto. Il Tribunale dichiarava integralmente compensate le spese di lite.
Contro tale decisione, l'attore proponeva appello, lamentando il rigetto dell'actio confessoria servitutis, in relazione al condizionatore d'aria, al marciapiede ed al tubo di scarico interrato. La Corte di Appello, in parziale modifica della sentenza impugnata, dichiarava l'avvenuta costituzione, per destinazione del padre di famiglia, della servitù di tollerare la permanenza del condizionatore. L'actio confessoria servitutis in relazione al marciapiede era stata rigettata dal Tribunale non già per la mancanza di una domanda formulata in tal senso, bensì perché difettava una domanda di riconoscimento della servitù di passaggio sulla porzione occupata dal marciapiede. Con l'atto di appello non era stata criticata la decisione del giudice di prime cure nella parte in cui questi aveva ritenuto non formulata una domanda di servitù di passaggio.
L'attore proponeva ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Con il primo motivo, il ricorrente deduceva che la corte territoriale aveva erroneamente, a suo dire, ritenuto che il Tribunale avesse reputato necessaria la formulazione di una domanda di dichiarazione dell'intervenuta costituzione di una servitù di passo sul marciapiede. Con il secondo motivo, lamentava il fatto che la corte locale non avesse considerato che le comparse conclusionali di secondo grado non vietano di svolgere argomentazioni, senza la necessità di porre l'interpretazione estensiva della domanda riconvenzionale formulata in primo grado a fondamento di un autonomo motivo di doglianza. Nel terzo motivo, il ricorrente si doleva che la corte di merito avesse omesso di pronunciarsi sulla domanda, pur non avendo negato che fosse stata formulata già in primo grado. Questi tre motivi, intimamente connessi, sono stati giudicati inammissibili in quanto, nella fattispecie deve escludersi tanto la “mancanza assoluta della motivazione sotto l'aspetto materiale e grafico”, quanto la “motivazione apparente”, o il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, figure - queste - che circoscrivono ormai l'ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità dopo la riforma dell'art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. operata dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830), mentre non risulta dedotto il vizio di cui al nuovo testo dell'art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. (relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo), non avendo parte ricorrente indicato - come era suo onere - il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato” (testuale o extratestuale) da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti nonché la sua “decisività” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831).
Con il quarto motivo il ricorrente denunciava il fatto che la corte di merito avesse compensato le spese nonostante quasi tutte le domande dell'attrice fossero state rigettate. Motivo infondato. in quanto la corte locale aveva congruamente motivato la pronuncia di compensazione integrale delle spese processuali sulla base del rilievo per cui, all'esito del giudizio d'appello, le parti fossero parzialmente soccombenti rispetto alle domande inizialmente formulate.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al rimborso, in favore dei contro ricorrenti, delle spese del grado di giudizio, liquidate in euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso del 15% per spese forfettarie ed accessori di legge.

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