Condominio

Il «pozzo di luce» è condominiale

di Valeria Sibilio

La Cassazione, con l'ordinanza 10620 del 2018, ha sancito la condominialità del pozzo di luce, esaminando un caso originato dalla sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda proposta da un condòmino, condannando il convenuto al ripristino dello stato dei luoghi e disponendo la rimozione della copertura in vetri del cavedio controverso. In accoglimento della domanda riconvenzionale condannava l'attore a ridimensionare le aperture lucifere, ex art. 902 c.c che affacciavano nel medesimo pozzo.
La precedente convenuta, ricorrendo in appello, veniva condannata a consegnare all'appellato un telecomando di apertura delle vetrate poste a copertura della chiostrina per il cambio d'aria.
Contro questa sentenza, l'attrice ricorrente proponeva ricorso per cassazione, fondato su tre motivi, mentre il precedente appellato replicava con controricorso contenente anche ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.
Con il primo motivo di ricorso principale, la parte ricorrente si doleva che la Corte di appello non avesse accertato l'effettiva data della installazione della copertura del pozzo di luce, avvenuta al tempo della costruzione dello stabile, ossia nell'anno 1990. Una censura che non ha potuto trovare ingresso in quanto l'utilitas” costituisce la ragione giustificativa del sorgere della servitù ed è prevista in funzione di una specifica modalità di utilizzazione del fondo dominante sul fondo servente (nel caso di specie: la consegna di un apposito comando a distanza atto a consentire l'apertura delle prese d'aria apposte al pozzo di luce). La mancanza della “utilitas” non determina l'estinzione del diritto di servitù, bensì è necessario che l'impossibilità di realizzare le opere finalizzate all'esercizio del diritto perduri per il tutto il periodo, ventennale, di prescrizione previsto dal codice. Pertanto, il diritto di servitù non si estingue se non per prescrizione, allorché la paralisi del diritto e delle facoltà del suo esercizio perduri per venti anni. La Corte non aveva fatto alcun riferimento al decorso del tempo dal momento che la costruzione della copertura di vetro era risalente al 1990.
Con il secondo motivo, la ricorrente sosteneva che la motivazione della sentenza della Corte di appello aveva omesso di effettuare controlli ed esami sulla natura delle luci e delle vedute che affacciavano sul cavedio e della verifica della loro irregolarità. Censura risultata infondata, in quanto, nel caso di azione diretta ad ottenere dal vicino il rispetto delle norme recanti limitazioni al suo diritto di proprietà, la natura di luci e vedute, regolare o irregolare, deve essere accertata dal giudice di merito alla stregua delle caratteristiche oggettive dell'apertura stessa, rimanendo irrilevante l'intenzione del suo autore o la finalità perseguita dal medesimo. Tuttavia, un'apertura munita di inferriata, tale da non consentire la “prospectio” nel fondo vicino, può configurarsi solo come luce, anche se consente di guardare con una manovra di per sé poco agevole per una persona di normale conformazione. Rispetto a tale genere di apertura, il vicino non ha diritto a chiedere la chiusura, bensì solo la regolarizzazione. La Corte di appello, sulla scorta degli accertamenti tecnici eseguiti in primo grado, aveva argomentato la non applicabilità dell'invocato art. 902 c.c. rilevando l'incertezza dei dati istruttori forniti.
Con il terzo motivo, il parte ricorrente lamentava la condanna alle spese processuali relative all'intero giudizio, nonostante l'autore della copertura a vetri del cavedio fosse colui che aveva acconsentito all'addebito della responsabilità circa l'installazione della predetta struttura. Motivo infondato, in quanto, attesa la normale responsabilità dell'attore per aver dato luogo al giudizio con una pretesa infondata, una volta rigettata la domanda principale, le spese sostenute dal terzo, chiamato a titolo di garanzia impropria, vanno poste a carico del soccombente che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia (Cass. n. 6514 del 2004). In particolare, allorché il convenuto chiami in causa un terzo ai fini di garanzia impropria, il giudice di appello, in caso di soccombenza dell'attore, pone a carico di quest'ultimo anche le spese giudiziali sostenute dal terzo, ancorché nella seconda fase del giudizio la domanda di garanzia non sia stata riproposta, in quanto, da un lato, la partecipazione del terzo al giudizio di appello si giustifica sotto il profilo del litisconsorzio processuale, e, dall'altro, l'onere della rivalsa delle spese discende non dalla soccombenza, bensì dalla responsabilità del primo di avere dato luogo, con una infondata pretesa, al giudizio nel quale legittimamente è rimasto coinvolto il terzo (Cass. n. 5262 del 2001, Cass. n. 4634 del 1991).
Nell'unico motivo di ricorso incidentale, si sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa in un omesso esame della circostanza, pure denunciata con l'originaria domanda, di perdita del ricambio d'aria e contestuale immissioni di fumi con la chiusura seppure a vetrata del pozzo di luce. Un motivo privo di pregio, in quanto il risarcimento dei danni per immissioni viene riconosciuto quando le stesse superano la soglia di normale tollerabilità (Cass. n. 1069 del 2017; Cass. n.9865 del 2005). Nel caso di specie, la perizia espletata aveva consentito di accertare che non vi era alcuna prova delle immissioni di fumi e odori “non tollerabili” verso la proprietà del fondo dominante. Un accertamento solo genericamente contestato dal ricorrente incidentale.
La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, dichiarando interamente compensate fra le parti le spese processuali e condannando i ricorrenti – principale ed incidentale - al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©