La difesa (antipatica) dei diritti non è ancora una «molestia»
Alla luce di quanto descritto e in considerazione delle valutazioni espresse circa il comportamento della condomina – che viene descritto come unicamente diretto “a generare falsi allarmismi e pesanti disagi” – la situazione potrebbe, astrattamente, rientrare nel campo di applicazione dell'art. 833 del Codice civile. Questa norma – nella pratica scarsamente applicata – prescrive che “il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”, abusando delle facoltà connesse al proprio diritto di proprietà.
I cosiddetti atti di emulazione, tuttavia, si configurano in presenza di rigidi presupposti che, nel caso di specie, rischiano di non essere integrati. Secondo la giurisprudenza (da ultimo, Cass. 1209 del 2016), ai sensi dell'art. 833 c.c. è necessario che l'atto di esercizio del diritto di proprietà del condomino “sia inutile per chi lo compie e sia posto in essere al solo scopo di nuocere o di recare molestia ad altri”.
Poiché integra atto emulativo esclusivamente quello che sia obiettivamente privo di alcuna utilità per il proprietario, e sia dannoso per altri, nel caso che ci occupa, il comportamento che ha spinto la condomina a presentare le denunzie e gli esposti può ritenersi ancora legittimo (essendosi rivolta a soggetti dotati delle competenze idonee ad affrontare la situazione descritta). Si tratta, a ben vedere, di atti diretti a tutelare la proprietà da qualsivoglia futuro e ulteriore pregiudizio discendente dall'infiltrazione. Essa è effettivamente esistente, e della stessa il condominio è a conoscenza, essendosi già attivato, anche se solo in via preventiva, per risolverla. Detti atti, in quanto volti a rendere più rapida la soddisfazione dell'interesse della condomina allo svolgimento dei lavori, non sembrano, quindi, affatto privi di utilità per chi li pone in essere.
Se già di per sé la sussistenza di un interesse del proprietario vale a precludere, in radice, la configurabilità degli atti da questi compiuti come emulativi, anche la prova dell'animus nocendi (inteso quale dolosa volontà di nuocere agli altri condomini) «deve – secondo la Cassazione – essere accertato alla stregua della condotta, quale si è esteriorizzata in concreto, e da cui possa trarsi inequivocabilmente la prova dell'assenza di interesse per il proprietario di compiere un atto pregiudizievole ai terzi». Dovrebbe quindi essere oggetto di prova (diabolica) l'elemento costituito dall'obiettiva e volontaria direzione dell'atto verso il risultato della molestia o del danno ai condomini.
Alla luce di quanto premesso e considerando che rientra nelle attribuzioni dell'amministratore la rappresentanza del condominio (e la conseguente gestione delle questioni che riguardano i rapporti del condominio medesimo con i singoli condomini, anche in vista di future azioni giudiziali), si ritiene (anche in considerazione delle minime informazioni di cui, allo stato, si dispone) che non vi siano ancora i presupposti per contestare l'abusività del comportamento della condomina.